Dati alla mano Europa precaria

Lavorarare per le piattaforme digitali: flessibilità o precarietà?

Consegna a domicilio, trasporto o servizi alle imprese: negli ultimi anni le piattaforme digitali hanno ampliato la loro offerta attirando sempre più lavoratori che, spesso senza scelta, iniziano una strada che non fa che precarizzare la loro condizione.

Pubblicato il 30 Giugno 2023 alle 09:52

Siamo ormai abituati a vedere passare in bicicletta silhouettes nere o azzurre, che attraversano le nostre città con in spalla uno zaino quadrato: da Madrid a Varsavia, passando per Parigi e Torino, i rider di UberEats o Deliveroo sono ormai parte del paesaggio urbano.

Si tratta di lavoratori al soldo delle cosiddette “piattaforme digitali”, imprese che raccolgono le domande dei clienti per poi affidare la regolazione del lavoro ad algoritmi, cosa che permette loro di  mobilitare quasi istantaneamente una manodopera che deve rimanere estremamente flessibile. 


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Si tratta del futuro del lavoro? Non abbiamo la risposta, sicuramente si tratta di una condizione delle innovazioni digitali, ovvero quella di lavoratori e lavoratrici che non sono, per scelta o per obbligo, né dipendenti, né all’interno del quadro collettivo dell’azienda e del suo organigramma.

Il 5,6 per cento degli europei ha lavorato come dipendente delle piattaforme digitali

Uno studio condotto dall’Istituto sindacale europeo (European trade union institute, Etui) nella primavera e nell’autunno 2021, fornisce una stima del peso di questa economia in 14 paesi dell’Unione europea. Il sondaggio, rivolto a più di 36mila persone, racconta che nei 12 mesi precedenti l’inchiesta il 5,6 per cento della popolazione presa in esame ha lavorato per una piattaforma digitale, di cui l’1,6 per cento per una durata superiore alle 20 ore a settimana guadagnando oltre il 50 per cento del suo reddito totale. 

Si tratta di persone che possiamo far rientrare nella categoria “lavoro attraverso Internet”. Secondo le stime di Etui, l’11,7 per cento degli europei quando cerca clienti o un lavoro come libero professionista utilizza il web o applicazioni predisposte. La specificità dei riders in questo caso è il pagamento tramite l’applicazione, la valutazione del servizio e la gestione attraverso gli algoritmi. 

Pero’ si puo’ dire che tutti i lavoratori “internet” si trovano in settori specifici, per esempio il micro lavoro (risposta ai sondaggi, trascrizioni…), lavoro specializzato che è possibile svolgere a distanza (relativo all’informatica, alla grafica…), del trasporto di persone, della consegna a domicilio e dei servizi alla persona (pulizie, trattamenti di bellezza, babysitting…).

Meccanismi che si stanno diffondendo in altri settori economici 

“In Belgio esistono circa 200 piattaforme, molte si occupano di servizi a domicilio, lezioni private, babysitting, assistenza agli anziani o agli animali” dice Martin Willems di United Freelancers, una sezione della Confederazione dei sindacati cristiani che ha lo scopo di sindacalizzare i lavoratori autonomi, senza un contratto dipendente o freelance.“Non sappiamo come misurare il fenomeno, ed è complicato parlare o trovare questi lavoratori. Quello che più ci preoccupa è che questa realtà lavorativa è estremamente difficile da capire”, aggiunge. 

I meccanismi delle piattaforme raggiungono e vengono integrati anche l’economia “tradizionale”: come sottolinea Agnieszka Piasna, coautrice delle studio: “Alcune imprese convenzionali come le catene di supermercati o i servizi postali organizzano i propri servizi di consegna a domicilio allo stesso modo, o in maniera piuttosto simil’, a quelli di una piattaforma digitale come Uber: l’ordine viene comunicato direttamente dall’applicazione, mettendo in concorrenza lavoratori senza contratto dipendente”.  

Un lavoro incentivato dalla precarietà

Come ha dimostrato uno studio condotto dal Compas (Centre d’observation et de mesure des politiques d’action sociale) pubblicato nel dicembre 2022, in Francia, al primo gennaio dello stesso anno quasi il 24 per cento degli autisti e dei driver abitano nei quartieri cosiddetti “popolari”: un fattore che mostra come le piattaforme digitali attecchiscano in maniera particolare sulla  precarietà.   

“Laddove il tasso di disoccupazione è elevato e gli impieghi di bassa qualità, perché temporanei o part time, la ricerca di un lavoro via Internet aumenta”, aggiunge l’esperta. 

La pandemia sembra aver incentivato questo tipo di economia come dimostra uno studio presentato alla Commissione europea secondo il quale più di un terzo dei lavoratori delle piattaforme digitali dice di averlo cercato e trovato in relazione al Covid. 

In Slovenia, nel novembre 2020, la piattaforma di consegna a domicilio di cibo Ehrana, acquistata in seguito dal gigante spagnolo Glovo, ha registrato un aumento del 300 per cento del fatturato;in Belgio aggiunge Martin Willems “molta gente ha perso lavoro e ha iniziato a fare il rider”. 

Per un periodo di tempo questo afflusso ha squilibrato il mercato della domanda e dell'offerta, come sottolinea il sindacalista belga: “Coloro che avevano iniziato prima del Covid hanno subito un calo del proprio reddito medio poiché il numero dei rider è aumentato più velocemente degli ordini”.   

Status delle piattaforme: manca un accordo

Per regolare a questo nuovo tipo di economia, diversi stati hanno deciso di prendere in mano la situazione e cercare di migliorarla: nel 2019 il Portogallo ha istituito i cosiddetti “operatori del trasporto privato” dando la possibilità agli autisti “di essere protetti dal diritto del lavoro e dalla protezione sociale nazionale”, riporta il Senato francese

Sempre secondo questo studio, nell’agosto 2021, la Spagna ha deciso di applicare una presunzione di subordinazione per i rider che ha portato Deliveroo ad abbandonare il paese mentre Ubereats “ha scelto di esternalizzare il servizio assumendo fattorini attraverso società intermediarie”. 

Altri paesi come il Regno Unito o l’Italia optano per una terza via che va verso il riconoscimento di alcuni diritti sociali, ma non tutti. In Belgio, invece, i rider lavorano dal 2017 in un’economia P2P (peer-to-peer, cioè da privato a privato), “senza rispettare né i requisiti di lavoratori dipendenti né di freelance e non dispongono neanche della previdenza sociale”, denuncia Martin Willems.    


“Laddove il tasso di disoccupazione è elevato e gli impieghi di bassa qualità, perché temporanei o part time, la ricerca di un lavoro via Internet aumenta”, Agnieszka Piasna


Per la Commissione europea esistono senza dubbio diversi “falsi freelance” tra i lavoratori delle piattaforme e ciò comporta una disparità di accesso ai diritti: secondo le stime della Commissione, infatti, il 55 per cento dei lavoratori delle piattaforme guadagna meno del salario minimo orario stabilito nel paese di residenza. 

Nonostante nel dicembre 2021 l’esecutivo europeo abbia presentato una proposta di direttiva con l’obiettivo di armonizzare e migliorare le condizioni lavorative di questi lavoratori in Europa, ancora non si è giunti a un accordo tra gli stati membri, tuttora divisi sulla questione: un anno dopo la presentazione della proposta, la presidenza ceca dell’Unione conclusasi lo scorso dicembre, non ha trovato una soluzione in seno al Consiglio dell'Unione.     

Tra i principali problemi della proposta presentata figura l’attuazione di una “presunzione di lavoro subordinato” tramite piattaforma. La Commissione stabilisce almeno due criteri da rispettare: la stretta supervisione del lavoro e l’obbligo di retribuire il lavoratore. 

Nella risoluzione adottata il 2 febbraio 2023, che modifica il testo, il Parlamento europeo preferisce lasciare ai governi nazionali la facoltà di effettuare una “valutazione oggettiva” appuntando “a titolo indicativo” una serie di indicatori di un rapporto di lavoro dipendente.        

Ma “più indicatori ci sono, maggiore è il rischio che i lavoratori vengano esclusi dal processo di riqualificazione", sostiene Barbara Gomes, docente di diritto privato e membro del “Collettivo dei lavoratori economicamente dipendenti” della CGT, sindacato francese di sinistra. "Se non interveniamo per cambiare il sistema, c'è il rischio che altri settori vengano toccati da questo tipo di ‘finto lavoro autonomo’”, aggiunge indicando tendenze simili già nel settore dei servizi alla persona e nei tentativi di uberizzare il campo del lavoro interinale.

Diventare freelance: una nuova moda, ma non per tutti

Nel settore dei servizi alle imprese, la nascita di piattaforme B2B che fungono da intermediari tra la domanda e l’offerta di servizi stimola la crescita del lavoro cosiddetto, almeno in questo caso, autonomo. Lo statuto di freelance sta diventando sempre più comune grazie a piattaforme americane come Upwork e la società francese Malt, che permettono di ottenere incarichi in molti campi: marketing, traduzione, sviluppo web, grafica, ecc. 

Odile Chagny, economista, cofondatrice della rete Sharers & Workers e coautrice di uno studio sulle piattaforme online, sostiene che i lavoratori altamente qualificati nel campo della consulenza e dell’informatica ne approfittano per mettersi in proprio: “Si tratta di ex dipendenti che beneficiano della propria rete per fare business, senza i limiti imposti dal datore di lavoro".

Se per alcuni colletti bianchi il lavoro da freelance è un modo per riconquistare potere e autonomia, l'intermediazione operata dalle piattaforme non funziona per tutti allo stesso modo. La maggior parte degli altri lavoratori “freelance” sono persone che si trovano esposte alla gestione algoritmica e al diktat delle valutazioni: una risposta lenta a una richiesta o una valutazione scadente possono ridurre la loro visibilità e causare un improvviso calo degli ordini… Persone poco esperte come i giovani che utilizzano questi siti per ottenere i primi “lavoretti”, potrebbero ritrovarsi in una posizione difficile.

Conseguenze sulla carriera

Poiché molte aziende hanno esteso lo smart working a nuovi posti di lavoro durante la pandemia, c’è la possibilità che esternalizzino queste funzioni anche ai liberi professionisti? Il rischio c'è, soprattutto perché i dipendenti a cui viene negato l'accesso al telelavoro potrebbero cadere nella tentazione di diventare freelance. "La ‘piattaformizzazione’ del lavoro è chiaramente legata alla questione del lavoro a distanza", affermano gli autori di uno studio pubblicato dal think tank belga Bruegel sulle disuguaglianze causate dalla digitalizzazione.

Poiché molte aziende hanno esteso lo smart working a nuovi posti di lavoro durante la pandemia, c’è la possibilità che esternalizzino queste funzioni anche ai liberi professionisti? Il rischio c'è, soprattutto perché i dipendenti a cui viene negato l'accesso al telelavoro potrebbero cadere nella tentazione di diventare freelance. "La ‘piattaformizzazione’ del lavoro è chiaramente legata alla questione del lavoro a distanza", affermano gli autori di uno studio pubblicato dal think tank belga Bruegel sulle disuguaglianze causate dalla digitalizzazione.

Oltre a contribuire all’atomizzazione del lavoratore a annullare il collettivo con i colleghi, questo tipo di piattaformizzazione può ostacolare lo sviluppo professionale dei lavoratori autonomi, circoscrivendoli a determinati compiti. Il rischio è particolarmente presente nel caso di mansioni frammentate, tipiche del "micro lavoro".

👉 Articolo originale su Alternatives Economiques
In collaborazione con European Data Journalism Network

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