Attualità l'europa Dopo Lisbona (2)

Oggi il G20, domani il mondo

Rafforzata dalla ratifica del trattato di Lisbona da parte dell’Irlanda, l’Unione europea potrebbe ora aspirare al ruolo di potenza globale. Secondo Gideon Rachman, però, è il G20 la piattaforma ideale per soddisfare le sue ambizioni.  

Pubblicato il 7 Ottobre 2009 alle 13:36
Robert Terrell

Era ora! L’Irlanda ha approvato il trattato di Lisbona e finalmente l’Unione Europea potrà andare avanti con il suo piano per dominare il mondo. Nel giro di pochi mesi, l’Ue nominerà un presidente e un ministro degli esteri: Tony Blair sta già scaldando i muscoli per candidarsi alla massima carica, mentre un manipolo di candidati svedesi, olandesi e belgi sgomita per la poltrona di ministro degli Esteri.

Rafforzata dalle sue nuove strutture di politica estera, l’Unione avanza pretese e vuole essere considerata davvero una potenza globale. Secondo David Miliband, segretario britannico degli Esteri, "non dovrebbe esistere un G2 tra Stati Uniti e Cina, ma un G3 che coinvolga anche l’Unione Europea". Ciò che accade a Bruxelles – e nei colloqui trilaterali tra Usa, Cina ed Europa – è in ogni caso secondario. L'indicatore reale delle ambizioni globali europee è il gruppo del G-20.

Jean Monnet, padre fondatore dell’Ue, credeva che un’Europa unita fosse “non fine a sé stessa, ma una piattaforma dalla quale partire verso il mondo organizzato del futuro”. Per i suoi successori a Bruxelles non è certo un segreto considerare la governance sovranazionale dell’Unione come un modello globale.

Il cavallo di Troia dell'Europa

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Ho capito che il G20 è il cavallo di Troia dell’Europa in occasione dell’ultimo summit tenutosi a Pittsburgh un paio di settimane fa. L’atmosfera che vi regnava era stranamente familiare. Poi ho capito: era come essere di nuovo a Bruxelles, e quella non era che una versione globale di un summit dell’Unione Europea.

Stesso modus operandi, stesso programma. La cena dei leader alla vigilia del summit; una giornata intera trascorsa negoziando un incomprensibile comunicato traboccante di parole per addetti ai lavori; l’organizzazione di misteriosi gruppi di lavoro; le sale stampa nazionali per le conferenze post-summit.

Tutte queste procedure sono estremamente familiari ai leader europei, ma sono completamente nuove per i leader asiatici e americani che gli europei stanno scrupolosamente coinvolgendo in questa nuova struttura. Mentre osservavo un delegato indonesiano che vagava per il centro conferenze di Pittsburgh non ho potuto fare a meno di provare un moto di pietà nei suoi confronti. "Non sai in che cosa ti stai andando a cacciare" ho pensato. "Stai per sprecare il resto della tua vita a parlare di quote pesca". O meglio, trattandosi del G20, di quote Co2.

Gli europei non hanno solo dato la loro impronta al G20, ne hanno anche dominato i lavori, essendo enormemente sovrarappresentati. Paesi grandi e importanti come Brasile, Cina, India e Stati Uniti avevano un solo rappresentante. Gli europei, invece, hanno fatto in modo da accaparrarsi otto poltrone intorno al tavolo delle conferenze, una ciascuna per Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia, Spagna, Paesi Bassi, più il presidente della Commissione europea e il presidente del Consiglio europeo. Anche la maggioranza dei dirigenti di organismi internazionali presenti erano europei: Dominique Strauss-Kahn, direttore generale del Fondo monetario internazionale, Pascal Lamy direttore generale dell’Organizzazione mondiale del commercio, e Mario Draghi, presidente del Financial stability board.

Di conseguenza, gli europei sono parsi molto più a loro agio delle altre delegazioni durante i lavori. Mentre mi lambiccavo il cervello per capire i nuovi poteri concessi al Fmi per monitorare le politiche economiche nazionali, come sono descritti nelle conclusioni di Pittsburgh, sono stato interrotto da un vecchio amico della Commissione europea che ha riconosciuto la terminologia e senza esitazione ha esclamato: "Ah, sì, il metodo aperto di coordinazione!". Insomma, c’è qualcosa in tutto ciò che abbia la minima importanza? Dopo tutto, i summit e le dichiarazioni dell’Ue sono diventati simbolo per antonomasia di macchinazioni tortuose e improduttive che spesso hanno scarso impatto nel mondo reale. Il processo che ha dato origine al trattato di Lisbona è iniziato otto anni fa. Anche dopo il sì espresso dall’Irlanda, il trattato di Lisbona potrebbe ancora essere fatto deragliare dai recalcitranti governi della Repubblica Ceca o della Gran Bretagna.

L'epopea di Lisbona

In ogni caso, l’epopea del trattato di Lisbona può essere interpretata anche in un altro modo: una volta che l’Ue addenta qualcosa, difficilmente molla la presa. Processi che hanno avuto inizio in vari summit dell’Ue, e che spesso potevano sembrare riunioni secondarie in cui non si faceva altro che scambiarsi burocraticamente carte e documenti – spesso a distanza di anni si sono rivelate avere implicazioni politiche anche importanti. Altrettanto si potrebbe affermare di alcune decisioni prese a Pittsburgh, per esempio quelle relative ai paradisi fiscali e ai bonus per i banchieri.

Fin dall’inizio, l’Ue ha progredito a piccoli passi e su questioni soprattutto economiche: si tratta del cosiddetto “Metodo Monnet”. Monnet credeva che l’Europa sarebbe stata costruita tramite “la comune gestione dei problemi comuni”. È poi tanto diverso dal recente appello di Barack Obama a trovare “soluzioni globali ai problemi globali?”.

Naturalmente, vi è ancora un enorme divario tra le competenze dell’Ue moderna e quelle del G20, che non dispone di un esercito di impiegati e funzionari in grado di competere coi burocrati di Bruxelles. Non vi è un’istituzione deputata a legiferare per il G20, né un tribunale che giudichi l’osservanza delle stesse da parte del gruppo. Né, infine, vi sono prospettive immediate che lascino supporre che gli Stati Uniti o la Cina – entrambi gelosi della loro sovranità – vogliano cedere qualche potere importante a un’istituzione legislativa del G20.

Nondimeno, qualcosa di nuovo è nato. Per comprenderne tutte le potenzialità, vale la pena ricordare la Dichiarazione di Schuman del 1950, con la quale si dette inizio all’integrazione europea: "L’Europa non si farà di colpo, ma si edificherà per mezzo di azioni concrete, che creino dapprima una solidarietà di fatto".

Il G20 ha ottenuto qualche risultato apprezzabile e un nascente senso di solidarietà tra i membri di questo nuovo, esclusivo club. Cosa accadrà adesso?

Diplomazia

L'Ue avrà le sue ambasciate

“Le trattative a porte chiuse su come rendere operativo il trattato di Lisbona sono sfociate nella proposta di autorizzare l’Ue a negoziare direttamente i trattati e aprire addirittura sue ambasciate nel mondo”. Lo riferisce Bruno Waterfield, corrispondente da Bruxelles del Daily Telegraph, accennando al contenuto di una lettera che sarebbe circolata nei Paesi Bassi, in Belgio e in Lussemburgo per spiegare nei dettagli la necessità di procedere a riforme legislative che portino alla creazione dell’European external service (Eeas), un servizio diplomatico che abbia “portata geografica globale”.

La decisione, presa prima del referendum della settimana scorsa in Irlanda, porterebbe alla creazione di un servizio diplomatico europeo con oltre 160 “rappresentanze Ue” e ambasciatori in tutto il mondo. Secondo il quotidiano londinese, le città candidate all’apertura delle prime ambasciate pilota dovrebbero essere New York, Kabul e Addis Abeba. Il Telegraph aggiunge che ciò implica la fine della Comunità europea, l’“organizzazione alla quale gli abitanti della Gran Bretagna decisero di aderire con il solo e unico referendum indetto sull’Europa, 34 anni fa”. Mark Francois, portavoce del Partito conservatore sull’Europa ha detto: “Come pensavamo da tempo, il trattato di Lisbona conferisce maggiori poteri all’Ue a discapito dei Paesi europei”.

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