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Rahman, apolide, vittima di tratta: “Perché sono clandestino ovunque?”

Nato in Giordania da genitori palestinesi, e quindi apolide, Rahman è fuggito dalla guerra in Siria: ha chiesto asilo in Svezia e poi in Norvegia. Rifiutato da entrambi i Paesi nonostante sia stato stato vittima di tratta, abusi e violenze il giovane è stato espulso in Giordania. Dopo altri due tentativi falliti per arrivare in Europa attraverso la Turchia e il Kosovo, è giunto in Spagna passando per il Marocco, dove attende che la sua richiesta venga esaminata.
Quarto di una serie di ritratti di giovani senza permesso di soggiorno, visto o cittadinanza ai tempi di Covid-19, realizzati in collaborazione con Lighthouse Reports e il Guardian.

Pubblicato il 1 Ottobre 2020 alle 16:49

Rahman* era uscito per fare la spesa quando ha ricevuto una multa di 500 euro per non aver rispettato le restrizioni imposte dal lockdown: "La pagherò non appena avrò il permesso di soggiorno", ha detto ai poliziotti. Ride e scuote la testa mentre racconta la storia durante una videochiamata. "Guarda come sono dimagrito, peso solo 57 chili", dice il giovane,  palestinese, oggi 21 anni, un metro e settanta su una corporatura esile.  

La discussione avviene in svedese, al quale si mischiano espressioni in norvegese. La sua abilità nel parlare entrambe le lingue testimonia i 5 anni trascorsi, da adolescente, nei due paesi: anni nei quali ha imparato che anche gesti in apparenza gentili come ospitare qualcuno possono portare a una crudeltà indicibile. Nonostante la sofferenza vissuta il diritto di restare in Europa sembra una chimera: la mancanza di documenti e di uno status lo ha reso vittima di crimini  terribili, che restano impuniti: è stato sfruttato, abusato ed espulso... ma la sua voglia di Europa è rimasta intatta e gli ha permesso di rientrare nel continente. 

Rahman è arrivato in Svezia, da solo, a 15 anni, nell’ottobre del 2013. 

Come molti altri giovani rifugiati, aveva sentito parlare bene del Paese: i bambini sono protetti, possono andare a scuola e sentirsi al sicuro, i loro diritti sono rispettati e quasi tutti possono rimanere. Rahman è cresciuto in Giordania, da genitori palestinesi di Gaza: nel paese, in applicazione delle leggi giordane, era apolide. 

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Al terzo anno della guerra civile siriana, il padre voleva mandarlo al di là del confine a combattere con i jihadisti, contro il regime di Bashar al Assad; la madre non era d'accordo e Rahman ha deciso di fuggire verso un luogo che sperava fosse sicuro.  In Svezia ha vissuto in un centro di accoglienza per rifugiati, ha iniziato la scuola e ha imparato rapidamente la lingua. Nel tempo libero giocava a calcio. 

Fast-food e droga

Nonostante la giovane età e i problemi in Giordania, il tribunale dell'immigrazione di Stoccolma nel 2014 ha respinto la sua richiesta di asilo e Rahman si è trovato senza sapere cosa fare, né dove andare: l’unica cosa che di cui era certo era che non poteva tornare in Giordania, dal padre. Decise così di restare in Svezia, senza permesso di soggiorno. Lasciò l’ostello dove era ospitato per non essere espulso e interruppe le comunicazioni con il suo tutore. 

Fu allora che un amico gli presentò Martin: un uomo grosso, sulla trentina, con la testa rasata e pesanti catene d'oro al collo che, informato della sua situazione, lo invitò in un appartamento nel centro di Stoccolma.

Al suo arrivo, Rahman rimase scioccato. Alcuni sniffavano colla, altri cocaina. Gli offrirono da bere, era la prima volta che provava l'alcool. Ha un vago ricordo di quella notte. Martin lo portò in una stanza, Rahman ricorda di essere stato colpito e di aver sentito delle mani sul suo corpo.  

Thierry Monasse | Getty Photos

Gli stupri e le percosse continuarono per mesi. Martin minacciava di ucciderlo se tentava la fuga. Nell’appartamento c’erano pistole e coltelli, Rahman non osava fare domande o discutere: "Non avevo né posto dove andare né soldi, e non c'era nessuno ad aiutarmi", dice.

In quell’appartamento passavano in tanti, era compito di Rahman tenerlo pulito. Veniva nutrito a fast-food e droga. Martin, senza alcun preavviso, lo faceva partire: una borsa e un indirizzo di consegna. Rahman si è trovato ad affrontare dei “viaggi della droga” in giro per l’Europa: gli venivano dati abiti nuovi, un passaporto falso e una borsa. Spesso viaggiava sotto l’effetto di droghe, dormiva in aereo. 

Minori scomparsi

Rahman fa parte delle migliaia di adolescenti arrivati in Svezia e poi spariti quando il meccanismo burocratico si è inceppato, e con lui il sogno di restare in Europa. Secondo l'Agenzia svedese per le migrazioni, dal 2013 sono scomparsi senza lasciare tracce 2.014 minori non accompagnati, il che equivale a quasi 70 classi scolastiche. La minaccia di espulsione, così come la tratta di esseri umani, vengono spesso citate come ragioni di queste scomparse. Ma si tratta di ipotesi, perché nei fatti nessuno sta cercando questi ragazzi. 

La polizia tiene gli archivi, ma nella maggior parte dei casi non vengono portate avanti ricerche attive; le municipalità dichiarano che questi adolescenti non risiedono più nel comune, ma non sono sotto la loro responsabilità; l'Agenzia svedese per le migrazioni dichiara di non poter esaminare i casi di bambini scomparsi. Nel 2016, il Comitato per i diritti umani dell'ONU ha formalmente criticato la Svezia per non essere riuscita a prevenire queste scomparse.

Il caso di Rahman non è isolato: sono numerosi i minori che non si trovano senza alternativa, vulnerabili, di fronte alle violenze e ai trafficanti. Secondo uno studio del 2015 condotto da un'agenzia governativa svedese, la maggior parte dei casi sospetti di minori vittime di tratta riguarda minori non accompagnati. All'epoca, in nessuna delle indagini sulla tratta di minori non accompagnati aveva fatto seguito un'azione penale.

Per cercare di capire come funziona il sistema e dove fallisce, ho cercato tutti i casi sospetti relativi a minori vittime di tratta in Svezia dal 2011 al 2015. Secondo i referti di polizia e le indagini preliminari, più della metà dei casi di tratta riguardava la schiavitù sessuale, in cui quasi la metà delle vittime sono ragazzi. La mancata reazione della polizia alla tratta di esseri umani era sistemica.

Rahman era uno di questi. L'ho rintracciato in Norvegia. Era riuscito a fuggire da Martin dopo diversi mesi di prigionia. Una volta raggiunta la Norvegia, ha richiesto nuovamente asilo e ha denunciato alle autorità la sua situazione in quanto vittima di tratta di essere umani. 

Come una madre

Rahman e il suo avvocato temevano che il suo caso non venisse preso sul serio. Poiché il reato è avvenuto in Svezia, la polizia norvegese ha trasferito il caso ai colleghi svedesi. Rahman non si fidava degli inquirenti di entrambi i paesi, aveva l’impressione che non si rendessero conto di quanto sarebbe stato pericoloso per lui identificare Martin senza nessuna garanzia di protezione.

Poco dopo il suo diciottesimo compleanno ho passato alcuni giorni con Rahman in una località balneare dove il giovane si trovava con la sua tutrice, nominata dal tribunale. Una mite serata estiva, circondati dai fiordi: "È come una madre per me", mi dice. L’indagine sulla tratta in Svezia fu chiusa. La sua domanda di asilo in Norvegia rifiutata perché tecnicamente non era più un minore.  Nell'estate del 2018 è stato espulso in Giordania.

“Qui non posso costruirmi una vita.Voglio tornare in Europa, Non mi arrenderò mai”.

Dopo quasi cinque anni in Europa, Rahman ha faticato per conformarsi alla società giordana, decisamente più controllata dal punto di vista sociale. Non poteva tornare dalla sua famiglia profondamente religiosa: ora fumava, beveva alcolici e aveva un orecchino. Doveva cercare lavoro senza carta d’identità, il che significava anche non avere accesso alla salute e non poter sperare di tornare a studiare.

La polizia sembrava provare soddisfazione nel tormentarlo. Gli chiedevano: “perché sei andato in Europa?” “Perché sei tornato?”. Stessa cosa da parte di amici e familiari:  “Dove sono i soldi, il successo?”.  Per un po' ha lavorato 12 ore al giorno in un bazar turistico per guadagnare uno stipendio che non pagava nemmeno l'affitto. Dopo qualche settimana, non avendo altre opzioni, ha deciso nuovamente di partire. 

Il primo tentativo fu la Grecia, passando per la Turchia: il gommone giallo sul quale viaggiava su però intercettato e fermato dalla guardia costiera turca. Dopo aver trascorso un mese e mezzo in un carcere turco, tornò in Giordania. All'epoca aveva una fidanzata norvegese, che in quanto europea poteva prendere un aereo e venire a trovarlo per qualche settimana. Rahman non aveva la stessa libertà di scelta.  I suoi amici in Norvegia lo hanno messo in contatto con persone che conoscevano  in Kosovo. Una volta lì, ha tentato il viaggio via terra ma fu arrestato in Montenegro e rimandato in Kosovo. Si ammalò gravemente e tornò in Giordania con, in testa, un altro piano per raggiungere l’Europa.  "Qui non posso costruirmi una vita", mi ha detto nell'estate del 2019. "Voglio tornare in Europa, Non mi arrenderò mai".

Fu la volta del Marocco. Rahman era cosciente del fatto che questo sarebbe stato il viaggio più pericoloso intrapreso finora. "Ma ce la farò, ne sono sicuro", insisteva. Più tardi, quell'estate, raggiunse il confine marocchino con l'enclave spagnola di Melilla. Questa porta verso l'Europa è chiusa da alte recinzioni di filo spinato e sorvegliata da droni. Era circondato da migranti e ragazzi della sua età che speravano di poter attraversare il confine di notte. Alcuni tentano per mesi, a volte per anni. Il piano di Rahman era quello di passare al di là della recinzione via mare: piano noto alle guardie di frontiera, che a volte sparano proiettili di plastica ai nuotatori. I suoi primi quattro tentativi fallirono, si ferì cadendo, ma riuscì a nuotare fino al porto di Melilla.

La Spagna, il Covid

"Sono felice, sono di nuovo in Europa", disse in un messaggio. Spaventato all’idea di essere rimandato in Marocco dalle autorità di Melilla, si nascose a bordo di una nave da carico per la Spagna continentale. Una volta nel Paese ha trovato posto in un centro di accoglienza dove gli vennero assegnati 50 euro al mese. Dopo sei mesi fu obbligato a partire, proprio quando la Pandemia di Covid19 ha colpito l’Europa. 

Ci siamo tenuti in contatto nel corso degli anni: gli chiedevo come stava e mi rispondeva sempre "bene", a prescindere dalle circostanze. Si obbligava a restare positivo perché aveva un obiettivo:  una vita normale con una casa, una ragazza e dei bambini. Gli piacerebbe lavorare nel turismo: parla diverse lingue e gli piace conoscere gente. conoscere gente nuova. 

Ma è presto per parlare di futuro, il suo resta incerto. Dove dormire o cosa mangiare sono le due principali questioni. Sta valutando due opzioni, entrambe sgradevoli: ricominciare a vendere droga o commettere intenzionalmente un reato. "Se vengo arrestato, avrò un posto dove vivere fino a quando la crisi del coronavirus non sarà superata", spiega.

La voglia d’Europa di Rahman lo ha riportato qui. Nonostante le violenze subite, il ragazzo è diventato un giovane uomo, ma non c’è nessuna certezza di avere un documento o il riconoscimento del suo status. Il processo di richiesta di asilo in Spagna dure 18 mesi, come prima della Pandemia. Rahman vorrebbe tornare in Svezia o in Norvegia, ma ora non è possibile.  Dalla Scandinavia alla Giordania, non gli è stato concesso il diritto di appartenere da qualche parte.  "Perché?", chiede. "Perché sono clandestino dappertutto?”. 

*Il suo nome è stato cambiato per proteggere la sua identità.

Questo articolo fa parte della serie Europe Dreamers, in collaborazione con Lighthouse Reports e il Guardian. Tutte le storie le trovi qui.

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