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In Turchia l’inamovibile Erdoğan oscilla tra conservatorismo radicale e nazionalismo aggressivo

Il terzo mandato di Recep Tayyip Erdoğan segna la continuità di un regime autocratico, con un forte controllo sui media e sulla società, sempre più dipendente dall’estrema destra e spietato nei confronti dei suoi oppositori. La sola incognita? La svolta economica liberale nel bel mezzo di una crisi finanziaria, spiega il giornalista in esilio Ahmet Insel.

Pubblicato il 21 Giugno 2023
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In Turchia le elezioni presidenziali e legislative di maggio 2023 sono state plebiscitarie. Gli elettori si sono recati in massa alle urne per votare a favore o contro un nuovo mandato per Erdoğan e, di conseguenza, per il mantenimento o meno del regime ultra presidenziale entrato in vigore nel 2018. 

Una maggioranza, seppur risicata, di elettori (52 per cento) ha votato a favore dell’uomo forte della “nuova Turchia” appoggiando così il suo regime, che si presenta sotto forma di autocrazia elettiva, l’edorganismo. 

Ancora una volta i risultati elettorali hanno mostrato una costante: la divisione della società turca in due parti quasi uguali. Recep Tayyip Erdoğan ha vinto tre elezioni presidenziali (2014, 2018 e 2023) e il referendum costituzionale (2017), raggiungendo quasi sempre lo stesso risultato, che oscilla tra il 51 e il 52 per cento dei voti. In altre parole, pur riuscendo a mantenere una maggioranza elettorale, Erdoğan non riesce a conquistare la fiducia di una parte dell’opposizione.


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Per Erdoğan e la sua cerchia ottenere la maggioranza ha significato stringere alleanze formali con altri partiti, dal tentativo di golpe del 2016: lui e il suo partito (AKP, di ispirazione islamico-conservatore) hanno bisogno dell’appoggio di gruppi dell’estrema destra nazionalista e integralista sunnita, con i quali hanno creato l’Alleanza popolare, accordo che va oltre una semplice alleanza elettorale e rappresenta un progetto di società contrassegnato da un conservatorismo radicale e da un nazionalismo aggressivo. 

In seguito alla vittoria elettorale, Erdoğan ha creato un governo quasi interamente rinnovato. Capo di Stato, ma anche di governo e del partito di maggioranza, Erdoğan aveva piazzato tutti i ministri del vecchio governo in posizioni eleggibili come deputati: è riuscito nel suo intento in quanto tutti occuperanno posizioni molto importanti in parlamento. Il nuovo governo si presenta sotto forma di biforcazione, da una parte nella politica economica caotica imposta da qualche anno dallo stesso Erdoğan, e dall’altra da un ulteriore rafforzamento degli elementi securitari, con l’accentuazione della fusione di partito, stato e presidente.  

Il cuore della politica securitaria dell’erdoganismo è composto dal capo dei servizi segreti esteri, dal capo di stato maggiore della difesa (come il ministro uscente), da un prefetto vicino a Erdoğan al ministero dell'interno e dal consigliere diplomatico di Erdoğan a capo dei servizi segreti. 

Inoltre, con tutti gli organismi di regolamentazione sotto il controllo diretto del presidente, la maggior parte dei membri dell'Alta corte da lui nominati, e con più di tre quarti dei media sotto il suo controllo, il regime autocratico in vigore ha un rigido controllo sulla società.


La questione dell’adesione della Turchia all’Ue è ormai archiviata, cosa che ha fatto tirare un sospiro di sollievo alla maggior parte dei leader europei

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