Dublino, gennaio 2010

C’è vita dopo il salvataggio

Dopo una settimana di smentite, il 21 novembre il governo irlandese ha finalmente ammesso di aver chiesto l'intervento di Ue e Fmi. Un'umiliazione cocente, ma anche l'opportunità di recuperare benessere e fiducia.

Pubblicato il 22 Novembre 2010 alle 11:00
Cian Ginty/Flickr  | Dublino, gennaio 2010

Questa mattina, per la prima volta da anni, gli abitanti di questo paese potranno alzarsi dal letto con la consapevolezza che qualcuno, nonostante i dubbi e le angosce che restano, si sta occupando della situazione.

Purtroppo quel “qualcuno” sono gli esperti della Commissione europea, della Banca centrale europea e del Fondo monetario internazionale, arrivati per negoziare le clausole del salvataggio dalla bancarotta delle traballanti banche irlandesi.

Il loro arrivo è indice del fallimento nella gestione dei nostri stessi affari e in certa misura del fallimento di tutti noi. Fallimento delle banche che, indotte in errore dal governo, si sono comportate irresponsabilmente svuotandoci le tasche. Fallimento umiliante soprattutto di un governo che non ha dato prova della più elementare forma di leadership se non quando è stato costretto a farlo da forze esterne.

Il peggio è che ora il governo ha ammesso le proprie mancanze, ma lo ha fatto in modo incompleto. Ieri il ministro delle finanze Brian Lenihan ha ammesso che la sua politica è stata un flop. Il primo ministro Brian Cowen, naturalmente, non si è ancora deciso ad ammettere la realtà.

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Adesso c'è il pericolo concreto che il governo cerchi di persuadere la popolazione che i termini e le condizioni stabilite dal Fmi in particolare siano soltanto opzioni, e che possiamo contrattare alla pari. I ministri, se non altri, potrebbero convincersi di questa assurdità.

La realtà è che siamo in bancarotta e dipendiamo in tutto e per tutto dagli altri. Salvare le banche costerà “decine di miliardi”: meno di 70 miliardi di euro secondo il ministero delle finanze, almeno 100 secondo altre ipotesi. In ogni caso, ben più delle nostre possibilità.

Ai ministri, e soprattutto al premier, piace sbandierare la capacità di prendere decisioni difficili. Ma negli ultimi due anni non ne hanno dato prova, e in buona parte sono stati mal consigliati. Adesso è giunta l’ora di prendere decisioni concrete, pratiche, radicali. Occorre ristrutturare le banche, non coccolarle. È necessario procedere a fusioni e vendite a grossi istituti stranieri. Nessuno potrà più sfuggire alle proprie responsabilità.

Ci sarà da pagare un prezzo per tutto questo, ma la ricompensa potrebbe essere grande. Se supereremo le terribili difficoltà che ci aspettano, potremo tornare al benessere, riguadagnare la nostra sovranità economica, ritrovare orgoglio e fiducia. Se riusciremo ad arrivare sull'altra sponda, ci saremo guadagnati tutto ciò. (traduzione di Anna Bissanti)

Da Dublino

Dichiarazione di dipendenza

Il lunedì di Pasqua del 1916, dalle scale dell'Ufficio postale centrale su O'Connell street a Dublino, il rivoluzionario irlandese Patrick Pearse lesse la dichiarazione d'indipendenza. La rivolta fallì e i suoi capi furono giustiziati, ma il testo è considerato una pietra miliare dell'identità nazionale irlandese. L'inizio recita così: "Uomini e donne d'Irlanda: nel nome di Dio e delle generazioni estinte dalle quali riceve la sua antica tradizione nazionale, attraverso di noi l'Irlanda chiama a raccolta i suoi figli sotto la sua bandiera e si batte per la libertà".

Quasi un secolo dopo, mentre il paese attende l'intervento dell'Unione europea e del Fondo monetario internazionale, il 19 novembre l'Irish Examiner titola "Dichiarazione di dipendenza", parafrasando il testo originale per riflettere sulla realtà odierna: "Uomini e donne d'Irlanda: nel nome di Dio, come siamo arrivati a tanto? Nel nome delle generazioni estinte dalle quali riceve la sua antica tradizione nazionale, attraverso i nostri nuovi padroni della Banca centrale europea l'Irlanda chiama i suoi figli al funerale della sua sovranità finanziaria".

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