Analisi Elezioni americane 2020

Qual è la posta in gioco per gli Usa (e per tutti noi) delle “elezioni più importanti di tutti i tempi”?

Quale sarà l’esito delle elezioni più importanti dell’anno, e forse del decennio? Il politologo olandese Cas Mudde evoca gli scenari possibili e e conseguenze per l’Europa dopo le elezioni presidenziali e legislative americane del 3 novembre.

Pubblicato il 2 Novembre 2020 alle 12:55

In pratica, mentre gli Stati Uniti sembrano profondamente divisi su ogni questione,  la maggioranza degli americani concorda  sul fatto che il loro “grande” Paese è minacciato dal “fascismo” e che nelle prossime elezioni è in gioco la “democrazia”. Se l’onnipresenza del “fascismo” nel dibattito politico è abbastanza nuova, l’idea che le prossime elezioni possano determinare il destino della democrazia statunitense non lo è. Dall’“elezione rubata” del 2000 in poi, ogni Presidente è stato considerato illegittimo da una (sempre maggiore) percentuale del partito avversario, da George W. Bush a Donald Trump passando per Barack Obama. Anche se Joe Biden vincesse con una maggioranza schiacciante, come indica ora la maggior parte dei sondaggi, di certo non farà eccezione.

 Affermare che le imminenti elezioni per la presidenza degli Stati Uniti sono “Le elezioni più importanti di tutti i tempi” è sì un’esagerazione, ma solo in parte. A posteriori, anche le elezioni del novembre 1932 nella Germania di Weimar furono molto importanti. Il 3 novembre prossimo c’è molto in ballo, e non soltanto per gli Usa. Perché? L’elettorato dell’unica superpotenza, sebbene in declino, quello americano non decide esclusivamente la politica interna degli Stati Uniti, ma influenza in modo significativo anche la politica globale, compresa quella europea. Di conseguenza, è importante che gli europei comprendano bene qual è la posta in gioco, in termini di politica interna degli Usa e di politica estera. Prima di ogni altra cosa, però, cerchiamo di capire che cosa stanno a indicare i numeri.

Le elezioni del 3 novembre 2020

Se è sempre azzardato scrivere un articolo a distanza di qualche settimana dalla sua pubblicazione,quando si scrive di sondaggi e del volubile clima politico negli Stati Uniti lo è ancora di più. Eppure, ci sono pochi dubbi: il candidato democratico Joe Biden vincerà il voto popolare. Anzi, è quasi certo che lo vincerà con un margine molto più ampio di quello di Hillary Clinton nel 2016. Spesso ci si dimentica che Clinton sconfisse Trump con un vantaggio del due per cento, conquistando quasi tre milioni di voti in più rispetto a lui. Tuttavia, a causa del sistema politico antidemocratico, il Collegio elettorale – che dà un peso sproporzionato all’America rurale – elesse Trump con una netta maggioranza.

Alcuni sondaggisti affermano che, per avere la possibilità di conquistare il Collegio elettorale, Biden dovrà vincere il voto popolare con un distacco di oltre cinque milioni di preferenze. Secondo quasi tutti i sondaggi, a metà ottobre questo non sembrava un problema. Da molte analisi, Biden risulta in testa rispetto a Trump con un distacco a due cifre in tutta la nazione. Tra questi sondaggi c’è il Rasmussen Poll, che tende a essere più compiacente nei confronti dei repubblicani e di conseguenza è spesso pubblicizzato da Fow News e dal presidente Trump. 

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Le elezioni negli Stati Uniti dipendono, prima e più di ogni altra cosa, dall’affluenza alle urne. E non soltanto da chi si recherà alle urne, ma anche da chi potrà andarci.

Insomma, i modelli di previsione danno Biden vincente sicuro. Per esempio, il sito web di Nate Silver, FiveThirtyEight, assegna all’ex vicepresidente l’88 per cento di possibilità di diventare presidente nel gennaio 2021. Nondimeno, gli stessi modelli davano a Hillary Clinton la stessa possibilità:sappiamo tutti com'è andata a finire.

Esistono, in ogni caso, alcuni motivi per cui questa volta i pronostici potrebbero rivelarsi esatti. Prima di tutto, i cosiddetti “fondamenti” dei modelli predittivi – che includono la situazione economica e il partito del Presidente in carica – danno favoriti i democratici, mentre nel 2016 davano favoriti i repubblicani. Forse, però, ancora più importante è che Biden sia in testa con un distacco netto rispetto a Trump in molti stati indecisi, inclusi quelli fondamentali e persi a sorpresa nel 2016 (come Michigan e Wisconsin). In verità, parecchi stati che fino a poco tempo fa erano considerati indiscutibilmente repubblicani (come Georgia, Iowa, Carolina del nord) oggi potrebbero schierarsi con i democratici.

 Se il Covid-19 ha reso più complicata e difficile la campagna elettorale di entrambi i candidati, non è certo che possa influire sui risultati elettorali in maniera significativa. Quasi tutti gli americani (ben il 94 per cento) si sono già fatti un’idea precisa e sanno chi (non) voteranno. In verità, le opinioni su Trump sono considerevolmente stabili , soprattutto se si tiene conto della sua instabile Presidenza. La pandemia non ha portato a defezioni di massa, nonostante i circa 225mila morti (bilancio tuttora in aumento) e la disoccupazione che ha raggiunto un numero a due cifre. In ogni caso, ci sono stati piccoli cambiamenti significativi che potrebbero essere decisivi per l’esito delle elezioni, in particolare tra l’elettorato femminile bianco (con alto livello di istruzione) che passerebbe a Biden e l’elettorato femminile non bianco (che si recherà alle urne). Si noti che le donne non bianche sono state influenzate in maniera preponderante proprio dalla pandemia.

In ogni caso, le elezioni negli Stati Uniti dipendono, prima e più di ogni altra cosa, dall’affluenza alle urne. E non soltanto da chi si recherà alle urne, ma anche da chi potrà andarci. Fin dalla fondazione del Paese, i risultati elettorali sono stati inficiati dalla soppressione del voto, dall’aperta e lecita esclusione degli afroamericani (e dei nativi americani) all’inizio fino alla manifesta e talvolta illecita dissuasione e ostruzione di oggi. 

Di conseguenza, l’attuale campagna dei repubblicani per la soppressione del voto non è qualcosa di nuovo, ma di certo ha raggiunto nuove altezze (o bassezze, se preferite). Dai seggi predisposti in Texas con un’unica urna, perfino nelle contee con milioni di abitanti, alle false urne singole predisposte in California, i repubblicani stanno facendo tutto quanto è loro possibile per limitare l’affluenza, soprattutto nei quartieri non bianchi che favoriscono i democratici. Senza parlare delle lunghe code ai seggi elettorali in quelle stesse aree: il primo giorno del voto anticipato in Georgia, un mio amico è rimasto in coda quattro ore nella cittadina (liberale) dove frequentai il college, mentre altri mi hanno parlato di attese in fila fino a dodici ore!

Benché tutto stia a indicare una vittoria di Biden, se non addirittura una sua vittoria schiacciante, sono troppo disincantato da quanto avvenne nel 2016 e troppo circondato da repubblicani e da episodi di soppressione del voto per escludere categoricamente una vittoria di Trump al Collegio elettorale. Certo, dal 2016 a oggi alcuni elettori hanno voltato le spalle a Trump, ma non sono così tanti quanto lascerebbe supporre la loro visibilità nei media. Oltretutto, coloro che sono rimasti al fianco di Trump credono davvero in lui.  

Andranno dunque alle urne per sostenerlo e la stragrande maggioranza di loro non si lascerà dissuadere da nessun provvedimento di soppressione del voto. Di conseguenza, cerco di prepararmi sia al protrarsi della situazione attuale – con Trump alla Casa Bianca, i repubblicani in maggioranza al Senato e i democratici alla Camera – sia a un piazza pulita totale, con i democratici vittoriosi alla Casa Bianca e al Senato (i due scenari più probabili, secondo me), o a qualsiasi esito intermedio.

Che cosa accadrà negli Usa?

A prescindere dal risultato, le elezioni saranno contestate dalla parte sconfitta: nei media, per le strade e, senza dubbio, in tribunale. Entrambi gli schieramenti affermeranno che la controparte non accetterà di aver perso, mentre dai sondaggi risulta che sempre più americani credono che la violenza sia giustificabile in caso di vittoria del candidato avversario. Di conseguenza, non sorprende che i media stiano facendo molte supposizioni su casi di “violenza post-elettorale”, parlando addirittura di una “seconda guerra civile”. Molti liberali sono convinti che Trump non si limiterà soltanto a respingere il risultato elettorale, ma si rifiuterà anche di lasciare il suo incarico, dando vita così a un vero e proprio “auto-golpe” (colpo di stato a proprio favore). Se dunque tutto è possibile – e questo dovrebbe già bastare a capirequello che c’è bisogno di capire sulle condizioni attuali della democrazia negli Stati Uniti, permettetemi di illustrarvi i tre scenari elettorali più probabili e il loro impatto sugli Usa.

 Tre scenari possibili

Il primo scenario è quello nel quale Trump perde le elezioni ma si rifiuta di ammettere la sconfitta e di lasciare la Casa Bianca. Benché questo sia anche lo scenario meno probabile, è pur sempre una possibilità, se non altro perché Trump stesso vi ha accennato (più volte). Sulla base del suo comportamento negli ultimi quattro anni, possiamo aspettarci che il Partito repubblicano si schiererà dalla sua parte o, quanto meno, non lo ostacolerà in modo attivo o esplicito. Molto dipenderà dalla reazione dell’opinione pubblica, nei mezzi di informazione e nelle piazze, e da quanto si farà per incentivare un’applicazione della legge in apparenza riluttante e per far schierare l’esercito al fianco del presidente eletto rispetto a quello ancora in carica. Tuttavia, tenuto conto del lungo servizio pubblico di Biden, compresi gli otto anni alla vicepresidenza, i suoi rapporti con la sicurezza nazionale sono quanto meno buoni, se non addirittura migliori, di quelli di Trump. Per esempio, da un recente sondaggio di Military Times si scopre che mentre nel 2016 Trump godeva del sostegno della maggioranza dei militari, nel 2020 Biden gode di un sostegno evidente superiore rispetto al suo, senza dubbio riconducibile in parte anche al sessismo contro Hillary Clinton.

Anche nel caso in cui Biden arrivasse a occupare la Casa Bianca, tuttavia, la sua presidenza sarà una sorta di Obama 3.0, perlopiù sfibrata da un Senato ribelle dominato dal Gop e contrastata da una maggioranza di stati controllati dai repubblicani. Come Obama, Biden cercherà di rabbonire i repubblicani “moderati”, concedendo molto, ma ricevendo in cambio poco. Al tempo stesso, la Camera controllata dai democratici diventerà sempre più insoddisfatta e intollerante, rafforzando così la ribellione in corso nell’ala sinistra del partito, soprattutto negli stati “deep-blue” (profondamente democratici) come California e New York. D’altro canto, il presidente Biden porrà fine agli attacchi alla democrazia liberale statunitense, sia quelli fisici sia quelli verbali, che hanno caratterizzato la presidenza di Trump, e ripristinerà i finanziamenti, il sostegno e la fiducia nelle più importanti agenzie federali quali l’Agenzia per la difesa dell’ambiente (Epa, Environmental Protection Agency) e il Federal Bureau of Investigation (Fbi). La sua vicepresidente, Kamala Harris, si concentrerà sulla riforma della democrazia e della giustizia, dove cambiamenti politici anche minimi potranno avere importanti conseguenze politiche a lungo termine.

Il secondo scenario è quello nel quale Trump perde di nuovo il voto popolare ma vince il Collegio elettorale. Per quanto con riluttanza, e forse dopo alcuni ricorsi in tribunale, Biden e il partito democratico ammetteranno la sconfitta, e saranno criticati con vigore dall’ala sinistra del partito che sosterrà anche che la loro sarà la sconfitta dei “democratici di Wall Street” e che Bernie Sanders avrebbe vinto. Se da un lato è verosimile che le proteste dilagheranno nelle città più importanti, e senza dubbio implicheranno azioni vandaliche di massa ed episodi violenti, dall’altro è improbabile che possa esserci una resistenza armata. Trump vedrà nella sua rielezione una forma di rivincita della sua campagna autoritaria e razzista e userà le proteste per lanciare un attacco della durata di quattro anni al dissenso e alle proteste politiche, con il sostegno dalla maggior parte dei repubblicani che, con ritrosia o con entusiasmo, accetteranno l’egemonia di Trump per gli anni a venire. In sostanza, Trump continuerà a governare perlopiù come prima, forse con meno freni e meno opposizione ancora.

Ciò che più conta è che un secondo mandato di Trump potrebbe riconfigurare in maniera determinante sia il partito repubblicano sia la democrazia e lo stato americano. Avendo vinto le elezioni da solo, in quanto il partito ha deciso in linea di massima di fare di lui la sua piattaforma, Trump non sentirà nessun bisogno di trovare un compromesso con l’establishment repubblicano. Al tempo stesso, sempre più repubblicani filo-trumpiani occuperanno posti nelle legislature federali e statali, anteponendo la lealtà personale a Trump alla lealtà di partito all’establishment repubblicano, per non parlare della lealtà democratica agli Stati Uniti o alla democrazia statunitense. Infine, i giovani filo-trumpiani, appartenenti a organizzazioni come Students for Trump e Turning Point USA, entreranno sia nelle fila del partito repubblicano sia nell’apparato burocratico statale, sostituendo burocrati democratici di lunga esperienza che hanno resistito al loro posto per quattro anni ma che, di sicuro, non saranno più disposti a lavorare per un presidente che diffida del loro lavoro o li sottovaluta. Se anche non riuscisse a demolire la struttura istituzionale della democrazia americana, Trump potrebbe svuotarla di contenuto e potere privandola di fondi, con deregolamentazioni e sostituzioni di dipendenti in posizioni chiave (dai burocrati di più basso livello fino ai giudici della Corte Suprema). In particolare, è con questi mezzi che la sua devastante eredità potrebbe sopravvivere per decenni alla sua attuale amministrazione.

Nel terzo scenario si prevede che Biden vinca le elezioni in maniera schiacciante, come stanno confermando i sondaggi da parecchie settimane. The Economist arriva addirittura a pronosticare per Biden una vittoria al 99 per cento, calcolando che potrebbe conquistare fino a 415 dei 538 voti dei Grandi elettori. Una vittoria schiacciante di Biden quasi sicuramente implicherebbe una vittoria schiacciante dei democratici con enormi margini di successo ai ballottaggi, comprese nelle legislature dello stato e al Senato. Questo consegnerebbe ai democratici la presidenza, il Senato e la Camera, proprio come nel 2008. Tuttavia, questa volta il presidente in carica non sarebbe un esordiente di Washington DC, ma un veterano del governo federale degli Stati Uniti che non sprecherebbe i primi due anni a cercare di comprendere il sistema e a capire come avere la meglio su repubblicani poco disposti a collaborare.

Biden è pronto a ricoprire il suo incarico e nei primi mesi della presidenza realizzerebbe molti cambiamenti significativi. Quanto più sonora sarà la sconfitta dei repubblicani, tante meno inibizioni avrà Biden e tanto meno tempo sprecherà a ottenere un “sostegno bipartisan”. In buona parte, si occuperà di porre rimedio ad alcuni dei danni provocati da Trump, per esempio ponendo fine al suo “divieto contro i musulmani” e varando politiche a breve termine finalizzate a mettere sotto controllo la pandemia da Covid-19 e dare impulso a una ripresa economica statunitense. Biden prenderà in considerazione anche politiche con effetti apprezzabili a lungo termine, come il sostegno allo status di nuovi stati federati di Portorico e del Distretto di Columbia – decisione che andrà presa dal Congresso – che potrebbero assicurare ai democratici quattro seggi in più al Senato per i decenni a venire. I vincoli più importanti per Biden saranno la Corte Suprema, che dopo la nomina di Amy Coney Barrett è formata per due terzi da conservatori, e i vari stati a governo democratico, anche se molti di essi potrebbero aver subito un’“ondata blu” a novembre.

Una vittoria schiacciante dei democratici getterebbe nello scompiglio il Grand Old Party. Tenuto conto che Trump non ha ancora dato vita a un’infrastruttura trumpiana, né dentro al partito repubblicano né fuori da esso, la sua influenza precipiterà rapidamente. Molti repubblicani filo-trumpiani eletti di recente erano opportunisti, più che suoi sostenitori convinti, e saranno lesti a denunciare Trump e le sue politiche con la stessa rapidità con la quale le hanno abbracciate – basti pensare a Marco Rubio e al Tea Party. A quel punto scoppierà una deleteria guerra interna tra i “conservatori nazionali” come Josh Hawley (repubblicano del Missouri), sostenitore di una visione mainstream più di destra (per esempio forme di blanda persuasione invece di volgare razzismo esplicito),  e gli “unificatori” come Ben Sasse (repubblicano del New England) che vuole un partito repubblicano più inclusivo, che rinverdisca l’ottimismo e il positivismo di Ronald Reagan. Mentre questa seconda fazione ha sicuramente un futuro – in particolare se riuscirà a fare presa sugli elettori ispanici e asioamericani conservatori a livello sociale – la prima potrebbe avere dalla sua parte la base, quanto meno a breve termine, e perlopiù nelle primarie nel Midwest e nel sudest.

Biden erediterà un’estrema destra aggressiva e abituata a mobilitarsi, sotto forma di bande di malviventi dotati di armi pesanti, e comprendente anche quelle che si autodefiniscono “milizie” come gli Oath Keepers e i Three Percenters, che dopo alcuni anni di sostegno a Trump ritorneranno su posizioni antigovernative. Oltre a loro, il Ku Klux Klan di vecchio stampo, i gruppi neonazisti e i “gruppi alt-right” di più recente formazione come i Proud Boys continueranno a istigare alla violenza, soprattutto in città come Portland in Oregon. 

Una vittoria di Biden sferrerebbe un duro colpo ai partiti di estrema destra che non sono al potere al momento, dal Front National di Marine Le Pen alla Lega di Matteo Salvini.

Se questi gruppi suscitano gravi preoccupazioni per l’ordine pubblico e rappresenteranno altrettante minacce locali alle comunità discriminate, non costituiranno un rischio grave per la democrazia degli Stati Uniti. È pur vero che godono di un sostegno significativo all’interno delle agenzie delle forze dell’ordine del Paese, e sia il Dipartimento per la sicurezza nazionale (Department of Homeland Security, DHS) sia il Federal Bureau of Investigation (FBI) hanno ammesso che i “suprematisti bianchi” costituiscono una delle più gravi sfide terroristiche a livello interno. Quando i loro agenti e capi ritorneranno ad avere il sostegno politico del presidente, agiranno con molta più rapidità e durezza per soffocare la potenziale violenza delle gang di estrema destra. E, come abbiamo già visto dopo l’attentato di Oklahoma City del 1995, questo porterà a un rapido declino del movimento, anche se continueranno a verificarsi episodi accidentali di violenza.

Che cosa accadrà in Europa?

Le elezioni negli Stati Uniti – ultima superpotenza rimasta, per quanto in declino e sempre più maldisposta – hanno conseguenze significative anche per il resto del mondo, Europa compresa. Malgrado superficiali articoli sulla “sempre più ampia base trumpiana in Europa”, Trump è estremamente impopolare in Europa, sia a livello di élite sia delle masse. Uno dei rari sostenitori espliciti di Trump è il Primo ministro ungherese Viktor Orbán, che lo ha già appoggiato nel 2016. Più che di una vera connessione ideologica però, in questo caso si può parlare di interesse personale. Se Trump difende i leader autoritari dalle critiche e dalle sanzioni, dal Congresso degli Stati Uniti al Dipartimento di Stato, Biden ha detto con chiarezza che ripristinerà la politica statunitense della difesa attiva e della promozione della democrazia e dei diritti umani in tutto il mondo: per quanto la politica degli Stati Uniti sia sempre stata imperfetta e opportunistica, gli ultimi quattro anni hanno fatto capire chiaramente che  ancora adesso è preferibile rispetto al tacito sostegno di Trump ai regimi autoritari.

Una vittoria di Biden sferrerà anche un duro colpo ai partiti di estrema destra che non sono al potere al momento, dal Front National di Marine Le Pen alla Lega di Matteo Salvini. Se da un lato Trump non ha mai allacciato rapporti veri e propri con questi partiti, tranne un rapporto a livello personale con Nigel Farage, leader del partito filo-Brexit, dall’altro è anche vero che li ha normalizzati e sostenuti più o meno apertamente. Perdipiù, Trump ha nominato molti ambasciatori degli Stati Uniti ambiguamente vicini ai partiti di estrema destra nei Paesi nei quali hanno prestato servizio, dall’ex ambasciatore in Germania Richard Grenell all’attuale ambasciatore nei Paesi Bassi Pete Hoekstra. Naturalmente, gli europei non avevano bisogno che Trump appoggiasse le politiche dell’estrema destra, in quanto lo stavano già facendo loro assai bene prima che lui entrasse nella scena politica. La sua sconfitta, in ogni caso, probabilmente cambierà il clima politico, in quanto i media internazionali di sicuro scateneranno uno tsunami di articoli sulla “fine del populismo”.

 In senso più essenziale, le relazioni tra Ue e Usa non cambieranno in modo così drastico come alcuni sembrano pensare. Certo, Biden non metterà a rischio l’Ue o la Nato, sebbene Trump finora lo abbia fatto più a parole che con i fatti, ma non farà molto di più che ripristinare il sostegno degli Stati Uniti. In un articolo abbastanza insipido pubblicato su Foreign Affairs, Biden ha illustrato la politica estera della sua presidenza, e l’Europa è citata soltanto due volte. La prima volta parla dell’Unione europea come di uno dei “più stretti alleati” degli Stati Uniti insieme al Canada. Nel secondo caso, la citazione è di passaggio ma ancora più rivelatrice, e vi si legge che gli Usa dovrebbero spingersi “al di là dell’America del nord e dell’Europa” e tornare a investire in Australasia. Da questo punto di vista, come per molte altre cose, la presidenza di Biden sarebbe una prosecuzione della presidenza di Obama, durante la quale gli Stati Uniti hanno già distolto la loro attenzione dall’Europa per rivolgerla in direzione dell’Australasia.

Questo spostamento di attenzione da parte degli Usa non soltanto ridurrà l’importanza dell’Europa agli occhi degli Stati Uniti, ma potrebbe anche esporre l’Ue a sempre più pressioni politiche dalla Cina da una parte e degli Stati Uniti dall’altra. Se la Cina è stata a lungo soltanto la “minaccia rossa” dei repubblicani, Biden ha fatto di più che sposare la posizione anticinese di Trump. In verità, mentre Trump potrebbe sembrare più accanito e razzista, Biden ha una posizione politica nei riguardi della Cina di gran lunga più ostile, radicata nel diffuso principio secondo cui quel Paese è la minaccia economica e alla sicurezza più grave per gli Stati Uniti. Tenuto conto che gli Usa sperano di contenere l’influenza della Cina nel Pacifico, eserciteranno sempre più pressioni sull’Ue e sui suoi stati membri e sacrificheranno le opportunità politiche per soddisfare gli obbiettivi strategici degli Stati Uniti, come sta avvenendo già ora per ciò che concerne la collaborazione con Huawei.

Conclusioni

Il 3 novembre un numero record di americani voterà per un (nuovo) presidente. L’esito della corsa elettorale avrà conseguenze importanti a livello nazionale e globale, molto più del solito. Per il momento, sembra che Trump subirà una sconfitta schiacciante, non tanto a causa del suo autoritarismo e delle sue politiche nativiste quanto perché le sue (non)politiche per il Covid-19 hanno messo in pericolo le vite degli anziani americani (bianchi), la sua base elettorale più solida e che per tradizione ha sempre aiutato i presidenti repubblicani a essere eletti. 

L’entità della vittoria avrà un peso notevole per molteplici ragioni: 

  1. la resilienza dell’opposizione di Trump;
  2. l’entità e la velocità della trasformazione del partito repubblicano; l’audacia dei primi anni della presidenza Biden. 

Sebbene i casi di violenza su ampia scala e un tentativo di auto-golpe siano improbabili, non per questo sono del tutto inverosimili: sono possibili e questo la dice lunga sulle condizioni della democrazia negli Stati Uniti dopo quattro anni di presidenza Trump.Le politiche di estrema destra non sono iniziate con Trump e non moriranno con lui. L’estrema destra resta una presenza significativa nell’ambito del più vasto movimento “conservatore”, così come del partito repubblicano, soprattutto nel Sudest, e un importante rischio per la violenza, sebbene sia niente al confronto delle compatte forze delle agenzie dell’ordine (e delle forze armate) dello stato americano.

La lezione più importante che l’Europa deve trarre, pertanto – Trump o Biden che sia – è che deve iniziare a camminare con le proprie gambe una volta per tutte, senza fare affidamento sugli Stati Uniti dal punto di vista politico e militare.

Le provocazioni violente saranno tollerate molto meno e misure repressive più rigorose faranno diminuire in maniera significativa la mobilizzazione e il sostegno per i gruppi di estrema destra come i Proud Boys e i Three Percenters, come avvenne dopo l’attentato di Oklahoma City del 1995.In anticipo rispetto alle numerose elezioni che si svolgeranno in Europa nel 2021, tra cui quelle dei Paesi Bassi e in Germania, una vittoria di Biden potrebbe spostare gli umori della politica, e i media annunceranno (prematuramente) la “fine del populismo”. I partiti mainstream potrebbero emarginare ancor più l’estrema destra dando la priorità alle questioni socioeconomiche come la ripresa dell’economia e togliendo importanza alle questioni socioculturali come l’immigrazione. In ogni caso, anche se l’Europa mainstream tornerà ad avere un presidente cordiale alla Casa Bianca, lo sguardo di quest’ultimo sarà rivolto verso il Pacifico, più che verso l’Atlantico.

La lezione più importante che l’Europa deve trarre, pertanto – Trump o Biden che sia – è che deve iniziare a camminare con le proprie gambe una volta per tutte, senza fare affidamento sugli Stati Uniti dal punto di vista politico e militare. Non soltanto gli ultimi due presidenti repubblicani americani hanno ignorato i Paesi e gli interessi europei, soprattutto quando entravano in conflitto con quelli degli Stati Uniti, ma anche i presidenti democratici non hanno più anteposto i legami tra Usa e Ue ad altri, soprattutto quelli con l’Australasia. Mentre gli Usa diventano un Paese formato in maggioranza da minoranze, la percentuale di americani con rapporti familiari e personali con altri Paesi e regioni del pianeta aumenta sempre più. 

È giunta l’ora, per i politici europei, di scendere a patti con questo sviluppo strutturale e programmare anche in vista di una politica estera più indipendente e diversificata.

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