Gli spaventapasseri servono a tenere gli uccelli lontani dai campi già seminati. Non è questo il ruolo dell'identità nazionale, ma l'argomento spaventa comunque molti. Il dibattito è appena stato riaperto in Francia, dopo aver fatto tappa altrove in Europa. Cercare di definire la propria identità nazionale è un compito che i paesi candidati all'adesione Ue si pongono implicitamente, come fosse un altro requisito da soddisfare. Una volta ammessi, imparano che l'identità europea non esiste ancora, e che è ancora lontano il giorno in cui uno potrà affermare, per esempio, "sono un europeo di Praga".
Dopo aver definito l'identità nazionale come un simulacro del patriottismo economico – quando un'impresa rischia di essere "venduta agli stranieri" – la Francia si pone oggi una semplice domanda: come convincere gli immigrati, i suoi cittadini nati all'estero, che esiste un concetto simile, un motivo per non fischiare più la Marsigliese? Ma nel puzzle europeo i volti multicolori non si preoccupano di sapere cos'è l'identità nazionale. Aspettano piuttosto che il rifiuto dell'altro scompaia dalle teste dei loro vicini.
Certo la Francia dispone di una lingua, di una cultura e di un'immagine riconoscibile agli occhi del resto del mondo. Ma cinquant'anni dopo la fondazione dell'Unione europea, questa forma di conservatorismo rivela un fondo d'ipocrisia. La Francia non ha più bisogno di definire un'identità già esistente, che fa da sirena per quelli che sognano di immigrare. Ha bisogno, semmai, di far evolvere la sua visione dell'altro a un livello europeo. Come ha sottolineato Le Monde, l'identità non si può inoculare come un vaccino. "I love Paris" non basta più. Oggi è tempo di dire "I love Europe". I.B.G.