Un tunisino torna in patria dalla Libia alla frontiera di Ras Jdir, il 23 febbraio.

La nuova frontiera d’Europa

Trent'anni fa nessuno avrebbe previsto il processo che ha portato i membri del Patto di Varsavia nell'Ue. Ora che un terremoto simile investe i paesi arabi, Bruxelles deve offrire loro la stessa opportunità di rafforzare le neonate democrazie.

Pubblicato il 1 Marzo 2011 alle 16:49
Un tunisino torna in patria dalla Libia alla frontiera di Ras Jdir, il 23 febbraio.

Il rifiuto del colonnello Muammar Gheddafi di trarre le conclusioni sia morali che pratiche dalla sua situazione di barricato a Tripoli, con più della metà del suo Paese (almeno in termini di popolazione) caduto nelle mani dell’opposizione, non deve stupire nessuno. Nei suoi 40 anni al potere in Libia non ha mai dato prova né di una forte morale, né di un istinto pratico, salvo per quello che riguardava la conservazione del suo potere.

Il risveglio del mondo arabo, iniziato appena un mese fa, continua invece a portare sorprese. Una, particolarmente benvenuta a chi scrive, è giunta sabato, da un Paese molto lontano dal Nord Africa. E credo che in una prospettiva a lungo termine, misurata in decenni, porterà sorprese importanti all’Unione Europea nel suo insieme. Ma prima parliamo della non-sorpresa. Dall’inizio della rivolta in Tunisia, si è spesso detto e scritto che l’ondata di proteste nel mondo arabo era inaspettata e imprevista.

Ma è vero il contrario, sono state predette in tutto salvo l’aspetto temporale. Sconvolgimenti, incluse rivoluzioni sociali e politiche, sono stati pronosticati per il mondo arabo costantemente, almeno nei due decenni precedenti. Il problema semmai è che questi pronostici erano talmente frequenti da aver annoiato il pubblico fino agli sbadigli, e passare alla fine inosservati. Ero rimasto sorpreso dagli eventi in Tunisia, Egitto, Libia, Bahrein, Oman e altri Paesi. Ma ho capito che non avrei dovuto stupirmene quando un ex collega dell’Economist - dove ho lavorato dal 1980 al 2006 - mi ha proposto di leggere un lungo «speciale» sul mondo arabo che il loro responsabile per gli esteri, Peter David, aveva pubblicato il 25 luglio 2009. Intitolato «Risvegliandosi dal sonno», l’articolo di David raccontava della «febbre sotto la pelle» nella maggioranza dei Paesi arabi, e citava innumerevoli libri e articoli di altri autori che già in precedenza erano giunti alla stessa conclusione.

Una volta che si guarda ai fatti, sorprende non tanto che la rivoluzione sia oggi in atto, quanto che non sia accaduta prima: nei 21 Paesi membri della Lega Araba la popolazione è raddoppiata negli ultimi 30 anni, più della metà dei 360 milioni di persone che li abitano ha meno di 25 anni. Gli arabi sono sempre più urbanizzati, e grazie a tv satellitari come la qatariota Al Jazeera hanno un accesso sempre maggiore all’informazione. Eppure, nonostante i prezzi sul petrolio e sul gas siano rimasti alti negli ultimi anni, il reddito della gente non è cresciuto, e le riforme politiche sono state quasi inesistenti. Nessuno, meno che mai gli anziani dittatori e i loro compari che governavano questi Paesi, dovrebbe stupirsi per la diffusione delle proteste e delle rivoluzioni.

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Per questo motivo, se in futuro questo movimento non si espandesse a Ovest, verso l’Algeria e il Marocco, e a Est, in Giordania, Siria, Arabia Saudita e gli altri Paesi del Golfo, dovremmo considerare proprio questa una sorpresa. Come nell’Europa Orientale e Centrale dopo il crollo del Muro di Berlino, la rivolta in espansione non porterà necessariamente la democrazia e non riuscirà ad abbattere definitivamente i regimi dovunque. Ma la pressione che provocherà non si riuscirà più a ignorare.

La sorpresa di sabato scorso è venuta invece dalla decisione del Consiglio di sicurezza dell’Onu di imporre sanzioni al regime di Gheddafi, congelandone le attività, e di deferire il Colonnello al Tribunale penale internazionale (Tpi). Per quanto benvenute e appropriate, queste decisioni sono poco più che gesti, considerato che l’assassino Gheddafi si è barricato a Tripoli e non appare troppo indebolito in questo momento dal congelamento dei suoi beni o dal divieto di viaggiare. Il vero significato della risoluzione giace però nell’unanimità del Consiglio di sicurezza, e soprattutto nell’appoggio, sia pure poco entusiasta, della Cina. Che ha comunque votato per deferire il Colonnello al Tpi per aver trattato i suoi oppositori più o meno nella stessa maniera in cui Pechino nel 1989 intervenne contro la rivolta di piazza Tiananmen. L’esercito cinese aveva sparato sulla folla dai ponti e non dagli elicotteri e dai caccia, ma ci sono pochi dubbi che Deng Xiaoping, che allora governava la Cina, non avrebbe esitato a far ricorso ancora più massiccio alla forza se fosse stato necessario.

La Cina di oggi tiene all’importanza di istituzioni e accordi multilaterali molto più di quella del 1989. Perciò è significativo e sorprendente che il suo governo ha ammesso, nella cornice della più importante istituzione multilaterale, di considerare l’uso della forza omicida per la repressione di una rivolta come un crimine del quale i leader devono rispondere.

E’ un cambiamento importante. E sarà importante ricordare questa dichiarazione alla Cina, quando i tibetani o i musulmani dello Xinjiang scenderanno in piazza la prossima volta. Prima di allora, e prima di una nuova protesta nella piazza Tiananmen di Pechino, non possiamo sapere quanto sul serio prendere questa posizione. Ma potrebbe essere una sorta di segno di maturità: si è arrivati a un punto in cui il sempre maggiore coinvolgimento della Cina nel mondo (in Libia ci sarebbero almeno 30 mila lavoratori cinesi) la spinge anche ad assumere posizioni più responsabili. E forse - ma solo forse - il tempo di reagire al dissenso interno con i massacri è finito.

La sorpresa a lungo termine portata dagli eventi in Egitto, Tunisia e ora in Libia, si ripercuote invece nel nostro lontano futuro. Riguarda le conseguenze che il possibile e probabile contagio delle rivoluzioni democratiche nell’ampia regione del Nord Africa e del Medio Oriente porterà all’Unione Europea. Dovremmo essere pazienti nell’osservare fin dove si spingeranno queste rivoluzioni, come lo fummo nei primi mesi dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989. Ma, come allora, pianificare e riflettere in anticipo si rivelerà utile.

L’Ue si è evoluta attraverso una serie di idee che, quando furono proposte per la prima volta, erano apparse improbabili, per diventare poi un giorno inevitabili. La prossima idea del genere potrebbe essere l’espansione dell’Ue alla costa meridionale del Mediterraneo. Nessuno oggi si attende un’evoluzione del genere, considerando che Francia, Germania e altri Paesi europei non riescono ad accettare l’idea dell’adesione della Turchia, che è già una democrazia. Ma torniamo ai primi Anni 90: divenne rapidamente chiaro che l’Europa Occidentale aveva un grande interesse a patrocinare la stabilità e lo sviluppo economico degli ex satelliti sovietici suoi vicini, e lo fece in un lungo e lento processo culminato con la piena adesione all’Ue per 10 di questi Paesi, più di dieci anni dopo. Non tutti gli ex «satelliti» dell’Urss sono diventati democrazie, e non tutti, almeno per ora, hanno aderito all’Ue. Lo stesso succederà probabilmente in Nord Africa e in Medio Oriente.

Eppure, bisogna pensare ai paralleli tra il crollo dell’Unione Sovietica nelle terre al confine orientale dell’Ue, e alla caduta delle dittature arabe nella costa meridionale del Mediterraneo. Così come dopo il 1989, anche oggi i grandi interessi e l’opportunità storica che l’odierno risveglio arabo offre all’Europa diventeranno sempre più chiari nei prossimi mesi e anni, nel bene e nel male.

L’America ha nella regione complessi dossier militari, e verrà ritenuta responsabile per quello che accadrà - o non accadrà - in Palestina. L’Europa, come nel dopo-1989, può offrire soprattutto legami culturali ed economici, che hanno una valenza più positiva. I Paesi europei sono già oggi i maggiori partner commerciali di numerosi Paesi nordafricani: l’Italia, per fare un esempio, è leader con la Libia e l’Algeria grazie al petrolio e al gas. La logica di questi legami, accanto alle paure di instabilità e migrazioni di massa, può puntare un un’unica direzione a lungo termine: una qualche sorta di forma di adesione all’Ue per alcuni Paesi nordafricani.

Più che un’adesione a pieno titolo, come la vediamo oggi, si tratterebbe di un’Unione nuova che contempla diverse forme di adesione. In fondo vale già oggi, visto che solo alcuni dei 27 fanno parte del sistema dell’euro, o della zona Schengen. Quindi ci vorrà una nuova formula per offrire integrazione economica, incluso un successivo accesso ai commerci e al mercato unico, ai Paesi democratici del Nord Africa, probabilmente senza concordare per il momento una piena libertà di movimento della mano d’opera. Tutto questo significherà che l’Unione Europea stessa dovrà cambiare di nuovo nome: potrebbe diventare l’Unione Europea e Mediterranea.

Senza una proposta del genere, senza una visione così a lungo termine, cosa potrà offrire l’Europa alle neodemocrazie nordafricane, se e quando emergeranno? Un po’ di aiuto, qualche posto all’università. Tutto qui. Eppure, dopo la caduta del Muro di Berlino, abbiamo da offrire, come incentivo per le riforme democratiche, qualcosa di veramente prezioso: la possibilità di unirsi a noi.

Appare difficile, anche senza menzionare l’Islam. Ma non dimentichiamo che un tale sviluppo darebbe anche un senso economico e politico all’Europa. Mediterraneo, se guardiamo alla sua radice latina, significa «al centro della terra», e non «confine meridionale». Fu il centro del nostro mondo per secoli. E fa parte del vicinato europeo.

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Europa centro-orientale

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