"La crisi libica sembra destinata a seppellire la politica estera comune dell'Unione europea", scrive Slate.fr. Il sito d'informazione ricorda che con il trattato di Lisbona l'Ue ha istituito la carica di Alto rappresentante per la politica estera, assegnata a Catherine Ashton, e ha creato un Servizio di azione esterna, "vero strumento diplomatico dell'Unione che impiega circa 6.000 persone con ambasciatori sparsi per il mondo intero". Tuttavia "Ashton è stata praticamente assente durante le rivolte nei paesi arabi", constata Slate.
Con una buona dose di candore è stata la stessa Ashton a spiegarne le ragioni. L'Alta rappresentante non può esprimersi se non ha prima consultato i ventisette ministri degli affari esteri degli stati membri e aver concordato una posizione accettabile per tutti. Il più delle volte si tratta di un minimo comune denominatore. L'espressione di una posizione 'europea' è, come sempre, appannaggio dei leader degli stati membri, soprattutto quelli più importanti. Se si tratta di prendere una decisione sull'Egitto, Nicolas Sarkozy, Angela Merkel e David Cameron rilasciano una dichiarazione comune. Gli altri non possono far altro che allinearsi o manifestare il loro malcontento astenendosi".
Con l'astensione in occasione del voto al Consiglio di sicurezza dell'Onu che ha autorizzato l'uso della forza contro la Libia, la Germania ha agito contro gli interessi dell'Ue, sottolinea Slate. "In seguito i tedeschi hanno cercato di sostenere che l'astensione valeva come un'approvazione. Ma il danno ormai era fatto. […] Il risultato è stato l'allontanamento della Germania dai suoi partner europei, Francia e Gran Bretagna, e dal suo tradizionale alleato americano. Berlino si ritrova nella stessa situazione del 2003, quando il cancelliere Gerhard Schröder, all'epoca a capo di una coalizione rosso-verde, si era opposto all'intervento americano in Iraq. La differenza – fondamentale – è che allora Berlino aveva Parigi al suo fianco. L'Europa è dunque divisa, ma la Germania non è isolata. L'astensione al Consiglio di sicurezza la mette nella stessa categoria della Russia e della Cina".
La posizione di Berlino non è ben compresa neanche in patria. "Merkel isola la Germania", titola Handelsblatt. Il quotidiano economico sottolinea come il ministro degli esteri Guido Westerwelle ripeta da tre settimane che "il dittatore non può restare". "Come definirlo? Chiedere tutto e subito rifiutando ogni mediazione?", si chiede Josef Joffe su Handelsblatt. "Realpolitik? 'Lavami ma non bagnarmi'? Ipocrisia?". Anche supponendo che la reticenza di Berlino sia collegata alle numerose elezioni regionali, "quanti voti può costare il fatto di votare per il meglio insieme al resto del mondo?"
"In questo caso 'solidarietà' non è una parola priva di senso, ma una perifrasi di influenza", continua Joffe. "Rinunciare significa dire addio a una politica estera comune. O dichiarare: 'cari amici arabi, vi facciamo i migliori auguri per la democratizzazione e le nostre condoglianze in caso non ce la doveste farcela".
"L'affronto della Germania agli europei, agli americani e agli arabi dimostra testardaggine isolazionista, autosufficienza e confusione strategica", denuncia la Welt am Sonntag. Astenendosi dal voto di New York "la Germania non soltanto ha perso credibilità come pilastro affidabile della politica di sicurezza globale. In una questione di primaria importanza mondiale, Berlino ha smascherato la finzione della politica estera dell'Ue".