Analisi Relazioni UE-Russia

Partenariato orientale: un’alleanza all’ombra della Russia

A oltre dieci anni dal suo lancio, il Partenariato orientale è ancora sconosciuto ai più e vittima di una visione europea essenzialmente russocentrica. Intanto l’assenza di progressi nei paesi del Partenariato orientale alimenta il risentimento, crea instabilità e solletica gli impulsi populisti.

Pubblicato il 7 Aprile 2021 alle 13:10

La politica europea di Partenariato orientale (Eap) è un po’ come una macchia di Rorschach. A seconda di chi la osserva, cambia radicalmente forma e significato. Vista da Varsavia o da Vilnius, è un progetto di grande rilevanza economica, strategica e civile; per l’opinione pubblica italiana, francese, olandese e di molti altri paesi dell’Europa occidentale, è solo un programma vago di cui non si conoscono i contorni e non si comprendono bene le finalità. Sui mezzi d’informazione se ne parla poco, e quando lo si fa è soprattutto da un punto di vista strettamente nazionale, mai europeo. E per la verità, è molto probabile che anche i leader politici non abbiano grande dimestichezza con l’Eap. 

Un discorso simile si può fare per i paesi coinvolti nel partenariato. Per contiguità geografica o per comunanza di esperienze storiche, gli stati dell’Europa centrorientale hanno una buona familiarità con le vicende di Bielorussia, Ucraina, Moldova, Georgia, Armenia e Azerbaigian. Al contrario, in Europa occidentale si ha spesso una conoscenza approssimativa degli stati ex sovietici, proiettati in un indefinito spazio geografico e politico dominato dalla Russia, o direttamente confusi con la Russia, i suoi confini e i suoi interessi. 

La maggior parte dei paesi dell'Europa occidentale ritiene quindi che le questioni relative agli stati membri del Partenariato orientale siano da trattare con Mosca piuttosto che con i governi locali, per non parlare del Partenariato stesso. Questo atteggiamento è diventato ancora più evidente con le recenti crisi nel Nagorno-Karabakh e in Bielorussia, dove i paesi dell'Ue non hanno quasi mai menzionato il Partenariato orientale come possibile veicolo per ospitare i colloqui volti a risolvere le crisi – anche se formalmente sarebbe spettato farlo al gruppo di Minsk – e hanno lasciato che la Russia se ne occupasse – e ne intascasse il credito politico.

I motivi di questa visione russocentrica sono diversi. In Italia alcuni sono figli di vecchi riflessi condizionati, coma la tendenza a schiacciare tutto ciò che è Esteuropa sulla Russia, e a identificare quest’ultima con l’eterno fantasma imperiale dell’Unione Sovietica. Altri sono più recenti, come il diffuso risentimento antiamericano e anticapitalista, che porta a considerare la Russia di Putin – in realtà un brutale sistema di capitalismo oligarchico di stato – come un possibile modello alternativo a quello liberal-democratico occidentale. 

Il meglio del giornalismo europeo, ogni giovedì, nella tua casella di posta

A questo si aggiungono i vagheggiamenti di una Russia baluardo di tradizionalismo e identità cristiana coltivati dagli strati più conservatori della destra. Il risultato è l’inclinazione a giustificare ogni azione di Mosca e a considerare naturale e immutabile il suo diritto a esercitare influenza sull’Europa dell’est e sullo spazio ex sovietico. Difficile dire se questo pregiudizio filorusso sia maggioritario nella società italiana ed europea occidentale in generale. Di certo è ben rappresentato in tutto lo spettro politico, con particolare intensità all’estrema destra e in parte della sinistra radicale, ed è anche evidente in diverse forze politiche di primo piano o che hanno avuto responsabilità di governo (Lega, Fratelli d’Italia, Movimento cinquestelle per l’Italia) o all’opposizione (i francesi France insoumise e Rassemblement national).

"Per molti stati membri occidentali dell'Ue il partenariato orientale è poco più di un guscio vuoto", spiega una fonte diplomatica a Bruxelles: "E' certamente un veicolo per fornire sostegno finanziario ai quei paesi, ma certamente non uno strumento politico. Nessuno qui crede che sia un'entità globale, al contrario dell'Unione Africana o dell'Asean". Inoltre, i paesi del Partenariato non mostrano molta solidarietà o coordinamento tra di loro, e "non formano un blocco coerente con cui l'Ue può costruire una relazione stabile tra pari".

A livello dell'Ue, "la maggior parte degli stati membri occidentali non segue la situazione nei paesi del Partenariato in modo coerente", dice un'altra fonte diplomatica all'interno dell'istituzione: "Sono interessati solo all'Ucraina o alla Bielorussia, e hanno posizioni divergenti per quanto riguarda l'atteggiamento verso Mosca. La Polonia e i baltici sono più propensi ad avere una posizione forte nei confronti del Cremlino, mentre Francia e Germania ne mostrano una più morbida. In questa situazione, è difficile per l'Unione avere una posizione univoca". Le cose potrebbero cambiare nei prossimi mesi, però, quando il cancelliere tedesco Angela Merkel lascerà il potere: essendo cresciuta nell'ex DDR, parla correntemente il russo e comprende la mentalità sovietica e post-sovietica - qualcosa che è stato piuttosto utile per mantenere una linea di conversazione aperta con Mosca. 

La recente visita a Mosca del capo della diplomazia dell'Ue Josep Borrell è emblematica delle conseguenze di questa mancanza di una linea chiara, e di una politica europea basata sulla reazione piuttosto che sull’iniziativa. Solo dopo che Borrell ha subito un'umiliazione diplomatica davanti agli occhi del mondo, l'Ue ha deciso di rafforzare le sanzioni contro personalità vicine al Cremlino e, soprattutto, di imporre misure restrittive nell'ambito dei nuovi poteri adottati all'inizio di dicembre. Il cosiddetto Magnitsky act dell'Ue si rivolge alle persone responsabili di violazioni dei diritti umani ed è stato usato per la prima volta per sanzionare gli agenti russi responsabili dell'"arresto, della condanna e della persecuzione" del leader dell'opposizione Aleksey Navalnyj.

Tutto questo ovviamente genera una visione quantomeno distorta di ciò che succede nell’Europa centrale e orientale, e non aiuta a sollevare interesse verso i paesi del Partenariato orientale. Il quale – va detto – nei suoi primi dieci anni di esistenza non è certo riuscito a realizzare il suo obiettivo primario, cioè garantire “stabilità, sicurezza e prosperità” ai paesi coinvolti. Dei successi in effetti ci sono stati, soprattuto sotto il profilo economico, ma la situazione rimane complessivamente poco incoraggiante: in Bielorussia le proteste che vanno avanti da agosto hanno fatto emergere il lato più feroce del regime, e in Azerbaigian il sistema rimane saldamente autocratico, e addirittura bellicista. Laddove dei progressi in materia di democratizzazione e governance sono stati fatti (in Georgia, Ucraina e Moldova, per esempio), essi sono ancora piuttosto fragili, minacciati dall’instabilità politica e da interessi consolidati difficili da intaccare. 

A riguardo c’è anche da dire che l’arretramento della democrazia non è esclusiva dei paesi dell’Eap: lo si osserva chiaramente all’interno della stessa Unione europea (soprattutto in Polonia e in Ungheria) e nei paesi dei Balcani ufficialmente candidati all’integrazione europea, con in testa la Serbia. Un acceleratore di trasformazioni politiche e sociali potrebbe essere l’offerta di una reale prospettiva di integrazione nell’Unione, ma è evidente che il passo sarebbe ben più lungo della gamba.

La recente visita a Mosca del capo della diplomazia dell’Ue Josep Borrell è emblematica delle conseguenze di questa mancanza di una linea chiara, e di una politica europea basata sulla reazione piuttosto che sull’iniziativa.

E inoltre il momento non sembra per niente opportuno, con l’Unione attraversata dalle tensioni con i suoi membri più riottosi (sempre Budapest e Varsavia) e l’allargamento all’Europa sudorientale che procede a rilento e tra mille resistenze. L’opinione pubblica europea non sembra pronta e anche fra i dirigenti europei c’è poca voglia di aprire nuovi negoziati. Infine, gli stessi stati del Partenariato non sembrano avere fretta di prendere il rischio di uno scontro con Mosca, per la quale qualsiasi avvicinamento dei suoi ex satelliti all’Ue è considerato una minaccia. Per tutelarsi da questi possibili rischi Mosca ha provocato o sfruttato dei conflitti “congelati” in quattro dei sei paesi del Partenariato (Georgia, Ucraina e ora Armenia ed Azerbaigian), garantendosi così un ruolo centrale qualsiasi sia la direzione che vorranno prendere.

Questa situazione di stallo, tuttavia, nei paesi dell’Eap non fa che alimentare risentimento, specialmente nella fasce più giovani e dinamiche della popolazione, instabilità e rischi di pulsioni antidemocratiche e populiste. C’è poi un dettaglio che va considerato: vista la situazione nei Balcani, non è nemmeno detto che il miraggio dell’ingresso nell’Unione abbia davvero quella grande “forza trasformativa” che spesso gli si attribuisce.

In questa situazione, la debolezza europea nello spazio ex sovietico è ben esemplificata dal ruolo più che marginale che Bruxelles ha avuto nella mediazione per mettere fine al recente conflitto in Nagorno Karabakh. Se è vero che nel Caucaso l’Europa non ha mai svolto un ruolo di primo piano, nemmeno nei conflitti degli anni novanta, l’attuale approccio alla regione sembra però avere il difetto di trascurare una visione d’insieme delle dinamiche (militari, di sicurezza, legate all’identità, squisitamente politiche) in atto tra e nei singoli stati. 

La soluzione preferibile appare a questo punto un processo di emancipazione civile autonomo nei paesi dell’Eap, capace di mettere in moto cambiamenti virtuosi in tutta la sfera pubblica attraverso un risveglio della coscienza collettiva e dell’impegno civico, che però avvenga non davanti agli “occhi di un occidente distratto e di un’Ue disinteressata”, ma con il sostegno attivo delle istituzioni comunitarie e dei singoli stati europei. E che si accompagni a una più intensa e fruttuosa cooperazione con l’Europa.

D’altra, parte è chiarissimo che ogni rafforzamento del ruolo europeo nello spazio dei sei paesi dell’Eap sarebbe considerato una manovra ostile da parte di Mosca, che ormai da anni ha un atteggiamento sempre più assertivo, e innescherebbe nuovi problemi e nuove scontri. La questione è molto delicata, come abbiamo imparato dalle vicende ucraine del 2014. Ogni mossa dovrà quindi essere studiata e messa in atto con una particolare attenzione a non irritare il Cremlino: l’Ue dovrà cercare di esercitare influenza e attrazione evitando ogni possibile provocazione e non dando mai l’impressione di voler evocare dei rivolgimenti geopolitici. 

Il divario tra l'atteggiamento verso il Partenariato orientale negli stati membri occidentali dell'Ue e nei paesi scandinavi ed ex socialisti è venuto di nuovo alla luce quando 13 stati membri (tra cui 10 ex paesi socialisti) hanno scritto una lettera alla Commissione europea, chiedendole di prestare ai paesi del Partenariato orientale "un'attenzione simile" a quella concessa ai candidati all'adesione all'Ue nel sostegno alla campagna di vaccinazione contro il Covid-19. Questa "diplomazia dei vaccini" ha significativamente ricevuto poca attenzione da parte degli stati membri più grandi (e occidentali), che non sembrano condividere con i loro partner centroeuropei la consapevolezza di quanto sia importante per l’Unione essere percepita dai paesi esterni come la forza a cui potersi rivolgere in situazioni di emergenza, in alternativa al vicino russo apparentemente benevolo, ma mai disinteressato. Così, la Russia ancora una volta è stata in grado di incassare profitti politici e diplomatici con il minimo sforzo, grazie alla mancanza di iniziativa, comprensione e azione dell'Ue.

La soluzione preferibile appare a questo punto una sorta di via di mezzo tra due dei quattro scenari che un recente paper di Visegrad Insight ha disegnato per il futuro del Partenariato orientale. In poche parole: un processo di emancipazione civile autonomo nei paesi dell’Eap, capace di mettere in moto cambiamenti virtuosi in tutta la sfera pubblica attraverso un risveglio della coscienza collettiva e dell’impegno civico, che però avvenga non davanti agli “occhi di un occidente distratto e di un’Ue disinteressata”, ma con il sostegno attivo delle istituzioni comunitarie e dei singoli stati europei. E che si accompagni a una più intensa e fruttuosa cooperazione con l’Europa. In pratica, un maggiore attenzione politica e un approccio rinnovato agli obiettivi e agli strumenti della partnership. Ma soprattutto investimenti e aiuti concreti alle organizzazioni della società civile e ai movimenti che si battono per la democrazia, per la tutela dei diritti delle minoranze e per lo stato di diritto. 

L'articolo su Visegrad Insight (in inglese).

Ti è piaciuto questo articolo? Noi siamo molto felici. È a disposizione di tutti i nostri lettori, poiché riteniamo che il diritto a un’informazione libera e indipendente sia essenziale per la democrazia. Tuttavia, questo diritto non è garantito per sempre e l’indipendenza ha il suo prezzo. Abbiamo bisogno del tuo supporto per continuare a pubblicare le nostre notizie indipendenti e multilingue per tutti gli europei. Scopri le nostre offerte di abbonamento e i loro vantaggi esclusivi e diventa subito membro della nostra community!

Sei un media, un'azienda o un'organizzazione? Dai un'occhiata ai nostri servizi di traduzione ed editoriale multilingue.

Sostieni il giornalismo europeo indipendente

La democrazia europea ha bisogno di una stampa indipendente. Voxeurop ha bisogno di te. Abbònati!

Sullo stesso argomento