Attualità Lezioni dal Covid-19

Perché l’Europa non era pronta per la pandemia e potrebbe non esserlo per la prossima. Gli scienziati accusano i governi

L'incapacità dell'Unione europea di prepararsi alla pandemia di Covid-19 era dovuta alla mancanza di fondi per la ricerca, sostengono diversi ricercatori di spicco. Questo ha fatto sì che l'UE abbia speso miliardi di euro per combattere la crisi Covid, mentre ha investito solo pochi milioni per cercare di prevenirla.

Pubblicato il 25 Gennaio 2024 alle 13:53
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Nuovi progetti di ricerca finanziati dall’Unione europea per proteggere i cittadini da potenziali future pandemie sono stati approvati di recente dalla commissione europea. Ma la strada per rafforzare la resilienza dell’Ue alle minacce sanitarie transfrontaliere è ancora lunga e ripida.

Il sistema frammentato e sottofinanziato costruito attorno alla nascente Autorità di risposta alle emergenze sanitarie (HERA), parte del pacchetto Unione sanitaria, suggerisce che l’Ue non ha imparato le due lezioni chiave dalla crisi del Covid-19: pianificazione a lungo termine e maggiori investimenti.

Le voci degli scienziati di tutta Europa sembrano essersi una volta ancora perse nel vuoto, come avvenne prima della pandemia. Un’altro dramma potrebbe così essere proprio dietro l’angolo.

"Il mondo non è pronto per la prossima pandemia. Se emergesse un nuovo virus, ci vorrebbe almeno un anno per avere i primi vaccini. Bisognerebbe sviluppare farmaci ad azione più ampia", profetizzava Johan Neyts, professore di virologia all'Università belga di Lovanio, in occasione dell'ottavo Simposio internazionale sulla virologia moderna che si è svolto nel settembre 2019 a Wuhan, in Cina.

Solo un paio di mesi dopo, nella stessa città che ospitava l'evento, la previsione del professore si sarebbe concretizzata nello scempio globale che tutti abbiamo vissuto."Se un nemico ti attacca, è meglio che tu abbia le armi pronte prima dell'attacco”, afferma Neyts, “invece, quello che abbiamo fatto con la SARS-CoV-2 (il virus che ha causato il Covid-19) è stato aspettare l'attacco e iniziare a costruire le nostre armi".

È vero: l'Unione europea ha speso miliardi di euro per combattere la crisi del Covid, ma solo pochi milioni per cercare di prevenirla, senza riuscirci proprio a causa della carenza di fondi per la ricerca. Secondo i ricercatori, si sarebbero potute risparmiare molte più vite e perdite economiche se i responsabili delle decisioni a Bruxelles avessero seguito la strategia di investimento nello sviluppo di farmaci attuata in seguito alla prima epidemia di SARS nel 2003. Se persiste un approccio così miope e basato sull'emergenza, i cittadini europei saranno lasciati senza protezione contro le future minacce epidemiche.

La politica miope non aiuta la ricerca a lungo termine

Nel periodo tra le due epidemie non solo in Europa ma in tutto il mondo, li governi avevano investito il denaro dei contribuenti in diversi progetti di ricerca sulla SARS, compresi farmaci e vaccini, che alla fine non furono mai realizzati a causa dei tagli ai finanziamenti. Quando è cominciata la pandemia e i finanziamenti pubblici sono tornati disponibili, alcuni di questi progetti promettenti sono stati ripresi e i loro inibitori si sono rivelati in qualche modo efficaci contro il Covid, dimostrando che gli sforzi di ricerca sostenuti avrebbero potuto fare la differenza.

“L'Ue preferisce ancora finanziare la reazione alle pandemie, piuttosto che la preparazione ad esse e penso che questo sia un errore, soprattutto quando si tratta dello sviluppo di antivirali ad ampio spettro che potrebbero essere prodotti in anticipo e utilizzati fin dall’inizio di qualsiasi epidemia”, afferma Bruno Canard, direttore del Centro nazionale francese di ricerca scientifica e specialista in struttura dei virus e progettazione di farmaci presso l'Università di Marsiglia.

I numeri sembrano dargli ragione. Nel 2023 il bilancio di HERA ammontava a 1.267,6 milioni di euro, compresi i contributi provenienti da diversi programmi: 389 milioni da Horizon Europe 2023-24, 636 milioni dal Meccanismo di Protezione Civile dell'UE (UCPM/rescEU) e 242,75 milioni da EU4Health che, con 5,1 miliardi di euro nel periodo 2021-2027, diventerà il più grande programma sanitario mai realizzato dall’Ue in termini monetari (cinque volte di più di tutti i precedenti programmi sanitari avviati dal 2003).

Solo un terzo del bilancio di HERA, ovvero 474,6 milioni di euro, è stato speso per combattere le malattie infettive attraverso la sorveglianza degli agenti patogeni, le contromisure farmaceutiche e il miglioramento dei sistemi sanitari. Per la ricerca e lo sviluppo dei farmaci sono stati stanziati non più di 50 milioni di euro. Questa cifra è inferiore al 2 per cento di quanto la sola Commissione ha pagato a “Big Pharma” per coprire parte dei costi di sviluppo dei vaccini anti-Covid, che ammontano a 2,9 miliardi di euro (di cui 350 milioni per la fase di ricerca). Ed è dieci volte inferiore ai 525 milioni spesi dal National Institute of Allergy and Infectious Diseases degli Stati Uniti, parte del National Institutes of Health (NIH), per il suo programma Antiviral Drug Discovery Centers, dedicato esclusivamente agli antivirali pandemici.
"Investire in farmaci in grado di neutralizzare potenziali malattie infettive non appena si manifestano è come un premio assicurativo: una scelta tra il rischio che vogliamo correre semplicemente lasciando correre e vedendo cosa succede, o cercando di essere preparati", ha affermato Eric J. Snijder, capo della ricerca sulla virologia molecolare presso il Leiden University Medical Center.

L'UE ha pagato la sua mancanza di preparazione contro la SARS-2 con quasi 439mila morti e un calo del PIL del 6,5 per cento nel 2020, il primo anno dell'ondata di Covid, e 2.018 miliardi di euro mobilitati attraverso il Recovery Plan per ricostruire l'economia devastata dai lockdown. Si potrebbe ipotizzare che 30 miliardi di euro, l'importo che i 27 Stati membri alla fine hanno dovuto spendere per le dosi di vaccino, avrebbe potuto essere un giusto premio da pagare in anticipo sotto forma di sviluppo e approvvigionamento di farmaci.  

"Non possiamo biasimare le aziende farmaceutiche per non aver sviluppato farmaci contro i coronavirus, perché all'epoca non c'era mercato per loro, dato che la SARS-Cov-1 si è estinta dopo pochi mesi", afferma Neyts.  "Credo che la colpa sia dei Paesi ricchi. Non hanno creato gli incentivi necessari alle aziende per sviluppare farmaci che possono essere immagazzinati".

"Per accumulare scorte in vista di future epidemie, un farmaco deve essere sottoposto a studi clinici per dimostrare che è sicuro e che è attivo contro almeno un virus della stessa famiglia, ad esempio un altro coronavirus", afferma Eric J. Snijder, responsabile della ricerca di virologia molecolare presso il Centro medico dell'Università di Leiden. “Solo le grandi aziende hanno la capacità e i finanziamenti per condurre tali studi clinici, quindi devono essere coinvolte”.

“Il problema è che la pandemia più noiosa è quella che avremo evitato che si verificasse, perché nessuno lo saprà, e chi è al potere non otterrà alcun merito per averla contrastata, e i governi non amano investire così tanti fondi pubblici nella prevenzione senza una garanzia di successo al 100%”, continua Snijder, “i politici tendono a guardare avanti di 3-5 anni, perché di solito è il periodo per il quale sono stati nominati o eletti, mentre un piano di sviluppo della droga a lungo termine richiede dai 10 ai 20 anni”. 
Bruno Canard, dell'Università di Marsiglia, e’ d’accordo: “non possiamo ottenere risultati tangibili con i progetti che l'Ue solitamente finanzia per un massimo di 5 anni. Ma l'anticipazione scientifica, che richiede tempo, è meno visibile per i contribuenti rispetto alla reazione”.


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RIcerche che avrebbero potuto mitigare la pandemia

Secondo i ricercatori rinomati che abbiamo intervistato, i 18 anni trascorsi tra la SARS-1 e la SARS-2 sono stati sufficienti per sviluppare molti buoni prototipi di inibitori e, con Paxlovid, Pfizer ha dimostrato che è possibile farlo anche in soli due anni, se gli investimenti sono sufficienti. Molti altri scienziati concordano sul fatto che avremmo potuto avere la possibilità di contenere la SARS-2 a livello locale attraverso la distribuzione e l'uso di questi farmaci a Wuhan e che, sebbene non ci sia nessuna garanzia che il virus non si sarebbe comunque diffuso in tutto il mondo, almeno avremmo guadagnato molto più tempo per lo sviluppo del vaccino.  

Neyts, Canard e Snijder, insieme a Rolf Hilgenfeld, responsabile del team sui coronavirus presso l'Istituto di Medicina Molecolare dell'Università di Lubecc…

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