Idee Archipelago Urss | Moldova
Trebujeni, Moldova, luglio 2019. Una cappella nel parco archeologico di Orhei. Foto: Fotokon

“Essere nati nell’Urss è uno stato d’animo”

Per gli uomini e le donne cresciuti nella Moldova sovietica l'indipendenza ha significato soprattutto libertà di scegliere. E ha portato alla consapevolezza di essere sospesi tra due lingue e due culture. Quarto contributo della nostra serie sui 30 anni dalla fine dell’Unione sovietica.

Pubblicato il 20 Gennaio 2022 alle 13:00
Trebujeni, Moldova, luglio 2019. Una cappella nel parco archeologico di Orhei. Foto: Fotokon

Quando è morto papà, sono volata a Chișinău e ho dormito una notte in casa sua. Ho diviso tra i vicini i suoi abiti e le sue cravatte. Non ho toccato i libri. Poi mi sono seduta sul bordo del letto e ho acceso la tv. Era un canale russo. Una ragazza cantava una canzone d’amore. La cosa mi ha talmente spaventata che, immediatamente, ho buttato via il telecomando e mi sono alzata. Papà odiava la lingua russa, papà odiava i russi. Era decisamente sbagliato ascoltare una canzone d’amore in lingua russa in casa sua, nella casa di un uomo ora morto, ma che per tutta la vita aveva combattuto contro il sistema sovietico e aveva tanto desiderato parlare una sola lingua: la lingua romena.

In quel preciso istante la sua figura si è presentata nitida davanti ai miei occhi: un anziano pieno di rimpianti, con i pugni serrati, con quella lingua straniera avvolta intorno al collo a mo' di cappio. È stato allora che ho cominciato a piangere veramente, per tutto. Se mai ho abbandonato l’Unione Sovietica, è successo quella notte.


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Sono nata quando i miei genitori erano già quasi anziani, ma non è stato questo, bensì la lingua russa a creare tra noi una specie di recinto elettrificato. Papà non mi ha mai perdonata per il fatto che allora, quando la Moldova si è proclamata indipendente, quando nel 1989 i moldavi si sono ripresi l’alfabeto latino per il quale avevano lottato e, in alcuni casi, erano morti, io non ho fatto ciò che avrei dovuto fare: recidere qualsiasi legame con la Russia. Non parlare più il russo, smettere di leggere in russo, non avere più amici russi.

Non dico di non averci provato, dico solo di non esserci riuscita. Per me è stato difficile litigare con papà e i suoi amici, costretti a vivere a metà i migliori anni della loro vita, nella paura, semiclandestini. Li ho visti perdere, a turno, la salute, il lavoro, la dignità, tutto per lo stesso ideale: uscire dall'Unione Sovietica e unirsi alla Romania. Mi pesavano le discussioni: i nonni deportati in Siberia, la mamma nata nel gulag, le persecuzioni. Chi ero io, cosa avevo scelto di essere? Me lo sono chiesta per anni. Perché mi era così difficile odiare quando l’odio era giustificato, quando sembrava la cosa giusta da fare?