La speranza contro il regime di Putin è nella società civile russa, in patria o in esilio

Nel bel mezzo della guerra russa contro l’Ucraina, il regime di Putin sembra inattaccabile. Ma la società civile sopravvive: lo dimostrano le folle a sostegno di Navalnyj e l’attivismo degli esuli politici, scrivono Andrei Soldatov e Irina Borogan dall’esilio.

Pubblicato il 21 Marzo 2024 alle 11:23

Dopo oltredue anni di guerra a tutto campo, due cose sono ormai evidenti: la pace non può essere raggiunta senza un cambio di regime a Mosca e, anche nell’eventualità di una  vittoria militare ucraina, si tratterebbe solo di uno dei tanti (ma non il decisivo) fattori che potrebbero contribuire alla sua caduta.  

Negli ultimi due anni la Russia di Vladimir Putin è diventata un regime profondamente radicato. L’esercito si è adattato alla perfezione alla guerra, anche se attraverso una strategia fatta di ingenti perdite materiali e umane, truppe lasciate a marcire nelle trincee per mesi e mesi, brutalità istituzionalizzata da parte degli ufficiali, e una totale indifferenza per le terribili condizioni nelle quali versano i civili ucraini e per le leggi di guerra.

Dopo l’umiliazione della primavera del 2022, quando Kiev non è stata "presa in tre giorni", i servizi di sicurezza si sono riorganizzati e hanno trovato una rinnovata motivazione in quello che considerano il terzo round della loro lotta con l’Occidente (dopo le battaglie del secolo scorso).

L’esercito, il complesso militare-industriale e i servizi di sicurezza sono intrecciati profondamente nel tessuto sociale e nell’entroterra del paese, al punto di aver contribuito all’improvvisa prosperità delle regioni più povere, al finanziamento delle imprese militari, compreso il pagamento dei soldati a contratto, caduti inclusi.

I servizi di sicurezza hanno affinato le tecniche volte a seminare il terrore e la gente comune ha ripreso la vecchia abitudine di abbassare la voce quando parla di guerra e politica nei luoghi pubblici, nei trasporti e nei bar.

In questi due anni la popolazione ha avuto diversi motivi per credere che Putin possa ancora contare su un ampio arsenale di misure per intensificare la repressione: annunciata il 16 febbraio, la morte di Aleksej Navalnyj non è che l’ennesima prova che il “metodo gulag” di Stalin potrebbe fare un ritorno trionfale.


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Questi due anni sono anche la dimostrazione che probabilmente abbiamo analizzato nel modo sbagliato il crollo dell’Unione Sovietica. La narrazione più diffusa è che la sconfitta militare nella guerra in Afghanistan abbia contribuito al crollo dell’Urss poiché, confusi e umiliati, l’esercito e il Kgb avevano assunto un atteggiamento attendista mentre le forze democratiche si insediavano nelle repubbliche sovietiche dalla fine degli anni Ottanta.

La realtà è però molto più complessa: il Kgb aveva sostenuto attivamente la perestrojka perché i servizi di sicurezza volevano porre fine al controllo del Partito comunista ma, quando le cose si sono spinte troppo oltre secondo i generali della Lubjanka (il palazzo che ospitava e ospita i servizi segreti) questi hanno cercato di spodestare Mikahail Gorbaciov e destituire Boris Eltsin, senza riuscirci.

E quando i democratici di Eltsin hanno cercato di regolare i conti, il Kgb è riuscito a spostare l’attenzione sul Partito comunista (immaginate se questo fosse accaduto nella Germania dell’Est: il Partito comunista tedesco sarebbe stato perseguito, e la Stasi, i servizi della DDR, sarebbe rimasta intatta).

È vero che l’esercito era stato umiliato dal ritiro dall’Afghanistan nel 1989, ma il suo ruolo politico è rimasto considerevole anche nei periodi più tumultuosi degli anni Novanta. Non per niente Eltsin aveva scelto come vicepresidente un generale, Aleksandr Ruckoj, il quale godeva di un’enorme popolarità per il suo servizio in Afghanistan. Sei anni più tardi, il principale rivale politico di Eltsin alle elezioni presidenziali era un altro generale, Aleksandr Lebed’, a sua volta eroe della guerra in Afghanistan.

Questo dimostra che anche una guerra disastrosa e umiliante non pone fine al ruolo dei generali in politica. 

I generali di oggi capiscono che, più la guerra coinvolge la società, più diventano importanti. E, per una questione di sopravvivenza, neanche i servizi di sicurezza rinunceranno facilmente al loro potere.

Per conquistare e mantenere il sostegno popolare alla guerra, Putin ha puntato a suscitare i sentimenti più vili: la xenofobia verso il popolo ucraino, l’avidità delle truppe a contratto e delle loro famiglie e l’odio, soprattutto verso omosessuali e “liberali”. Il tutto permeato da uno strato di paura. 

In sostanza Putin si è proposto di corrompere l’anima del popolo russo, e purtroppo ci è riuscito.

Quali saranno le conseguenze? In parte questo comporterà che, in caso di un eventuale cambio di regime, gran parte della popolazione sarà terrorizzata e meno propensa a sostenere il cambiamento perché “complice” del governo. Non sarà possibile incolpare qualcun altro, ma si punterà comunque il dito contro chiunque, un partito politico, i servizi di sicurezza o il dittatore, rifiutandosi di accettare le proprie responsabilità.

È una pessima notizia, ma ci sono anche quelle buone. 

Nonostante le terribili pressioni, gli arresti e le persecuzioni nei confronti dei dissidenti, la società civile russa è sopravvissuta. Le migliaia di persone che hanno deposto fiori per Navalnyj sono una sfida alle autorità, che potrebbero decidere, da un giorno all’altro, di arrestarle o reprimerle.  La società russa è viva anche in esilio. La forza dei legami fra le persone emigrate, (oltre) un milione, e quelle rimaste in patria è tale da non aver consentito al Cremlino di spezzarli, nonostante gli sforzi profusi. 

È stata inasprita la censura su Internet, continuano le persecuzioni e gli atti intimidatori, ma non è bastato.

Per ora, nel buio inverno di una lunga guerra, immaginare un futuro migliore è difficile, ma il seme della speranza si trova nella società civile. In definitiva, la possibilità reale e sostenibile di un futuro migliore in Russia e di una pace duratura in Europa risiede nel sostegno alla società civile russa, sia in patria o all’estero.


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