Basta Europa dei prepotenti, dei padroni che riconoscono solo la legge del più forte. Basta con l'Unione degenerata in una piramide feudale, in cima un grande Stato, l'unico davvero sovrano, e sotto la pletora di vassalli, valvassini e valvassori agli ordini. Basta con l'Europa inconcludente dei proclami: scandalosa quando la crisi economica morde, l'austerità fa il resto e il lavoro si trova sempre meno.
Mai prima d'ora, prima della super-domenica elettorale appena archiviata, si era toccato con mano e con tanta brutalità lo sciagurato divorzio tra l'Europa, le sue classi dirigenti e i suoi cittadini. Una rottura maturata sotto le coltri di un progetto comune che non solo ha perso velocità ma ha finito per rinnegare spirito e politica delle origini ostinandosi a ignorare la realtà: scontento e frustrazioni sempre più diffuse, i problemi della gente. Da qui la perdita di consenso popolare. Non è ancora un plebiscito negativo ma quasi. A questo punto o l'Europa riparte e torna a essere Europa oppure prima o poi muore. Per ricucire con i suoi popoli ha urgente bisogno di due cose: crescita economica e politica.
Per cominciare, recupero della dinamica democratica a tutti i livelli, inter-istituzionali compresi, ripudio di ogni deriva "direttoriale", riscoperta della comunità di diritto e relativa eguaglianza degli Stati di fronte alla legge oltre che del principio dell'unità nella diversità (non nell'uniformità). Solo per questa strada si può sperare di guarire la crisi di fiducia, di superare il mare di diffidenze reciproche che oggi avvelenano la convivenza europea.
Senza però una crescita economica tangibile, e non declamatoria, senza nuovi posti di lavoro, ponti e autostrade trans-europee, reti digitali ed energetiche, in breve senza l'Europa delle opportunità e della speranza al posto di quella del rigore e della disperazione, dalla palude non si esce.
Sarebbe sbagliato illudersi che da sola la Francia socialista di François Hollande, che ha vinto puntando tutto sul rilancio dell'economia europea, possa superare le resistenze tedesche. Evitando così che altrove in Europa si ripeta l'incubo della Grecia, dove l'eccesso di rigore ha fatto saltare domenica anche i parametri della democrazia con l'abnorme ascesa degli estremismi di ogni colore. Per riuscirci Parigi ha bisogno di formare una sorta di santa alleanza che faccia da solido contrappeso allo strapotere della Germania, che finora ha dilagato anche perché non ha trovato argini credibili.
Premesso che i binari della crescita nel rigore sono stretti ma obbligati per aprire un serio dialogo con Angela Merkel, premesso che Hollande pare accettare con convinzione il binomio, l'intesa con l'Italia di Mario Monti e con la Commissione Barroso, con la Spagna di Mariano Rajoi, Portogallo, Grecia, Belgio e anche Olanda sembra solo questione di tempo. Il vertice straordinario Ue del 23 maggio potrebbe essere il momento per testare nuove alchimie di potere insieme a ricette concrete per far ripartire l'economia.
Impresa non facile. Di idee sul tappeto ce ne sono molte: dai project bond per finanziare grandi infrastrutture all'aumento del capitale Bei, dal riorientamento dei fondi strutturali Ue non spesi alla tassa sulle transazioni finanziarie in parte per aumentare il bilancio Ue. Fino agli eurobond in un futuro non ravvicinato. E ancora: l'introduzione della golden rule per scorporare gli investimenti in sviluppo durevole dal calcolo dei deficit, l'interpretazione più flessibile del fiscal compact per allungare i tempi del risanamento dei conti pubblici rendendolo socialmente ed economicamente più accettabile.
Sono però tutte idee che in un modo o nell'altro chiamano in causa solidarietà e coesione, cioè lo spirito europeo che nell'ultimo biennio di crisi è mancato. O che, a danni ormai fatti, è stato tolto in extremis con il forcipe dei mercati dalla pancia di miopie e egoismi nazionali imperanti.
La crescita economica è indispensabile ma, per essere davvero europea e sostenibile, in prospettiva postula altro. Più integrazione a tutti i livelli. L'aggiornamento dello statuto della Bce, dei suoi obiettivi e margini di manovra dopo 10 anni di euro e l'avvenuta globalizzazione di economie e mercati. Un modello di società e sviluppo al passo con tempi. L'Unione politica. Senza, difficilmente l'euro potrà vivere a lungo.
La sfida è ciclopica. Passa per una controrivoluzione culturale alla riscoperta dell'Europa perduta. Fattibile? Di certo la rimessa in moto dell'economia è il primo passo per riconciliarsi con i cittadini, perché un progetto che distrugge la crescita non può attirare consensi. Il resto verrà se si ricostruirà la fiducia anche tra i Governi: se tutti torneranno a parlarsi alla pari, nel rispetto reciproco e riscoprendo il valore dell'interesse comune in un mondo globale dove l'Europa diventa sempre più piccola. E deve imparare ad agire in fretta.
Opinione
L’esperimento è fallito
“L’eurozona è il peggiore esperimento mai tentato?”, si domanda Peter de Waard su De Volkskrant. Secondo il giornalista economico le differenze tra i 17 paesi che condividono la moneta unica sono troppo marcate, ed è evidente che i problemi dell’eurozona si stanno sommando e sembrano sempre più insolubili:
"Nel 1992 il cancelliere Helmut Kohl e il presidente francese Mitterrand avrebbero fatto meglio a lanciare le freccette su una mappa del mondo con gli occhi bendati per scegliere i paesi da includere nel progetto euro”, scrive de Waard. Alla base delle sue considerazioni c’è uno studio realizzato da alcuni economisti della banca JP Morgan, che si sono divertiti a ipotizzare fantasiose unioni monetarie valutando le statistiche economiche di diversi paesi.
De Waard spiega che ci sono meno differenze tra “tutti i paesi che si trovano a 5 gradi di latitudine nord - gruppo che comprende tra gli altri Colombia, Camerun, Sud Sudan, Suriname, Brasile, Venezuela e Indonesia - che tra quelli dell’eurozona. E il risultato è lo stesso se prendiamo in esame tutti i paesi che cominciano con la lettera M (Mali, Madagascar, Marocco, Macedonia, Messico e Mongolia)”
A rendere così disomogenea l’eurozona, spiega infine De Waard, sono le differenze in termini di produttività, di sistemi giudiziari, di politica della concorrenza e di spesa del denaro pubblico.
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