Paris, 11 gennaio. Una manifestazione di oppositori del regime del presidente tunisino Ben Ali.

Trattare Ben Ali come Lukashenko

Di fronte alla repressione in Tunisia l’Ue dovrebbe applicare le stesse "sanzioni intelligenti” usate nel 2006 contro il regime bielorusso di Aleksandr Lukashenko, scrive José Ignacio Torreblanca.

Pubblicato il 14 Gennaio 2011 alle 16:38
Paris, 11 gennaio. Una manifestazione di oppositori del regime del presidente tunisino Ben Ali.

A dicembre l’ultimo dittatore europeo, Aleksandr Lukashenko, al potere in Bielorussia dal 1994, si è regalato per Natale una bella vittoria elettorale, con l’80 per cento delle preferenze. In seguito ha fatto chiudere gli uffici degli osservatori internazionali, ha mandato la polizia a picchiare i manifestanti, ha imbavagliato i pochi media indipendenti rimasti e ha fatto incarcerare oltre 600 cittadini, tra cui il leader dell’opposizione Andrej Sannikov, arrestato con la moglie direttamente nell'ospedale dove era stato appena ricoverato dopo essere stato malmenato dalle forze di sicurezza.

La buona notizia è che l’Ue ha reagito con fermezza. Nel 2006, dopo elezioni altrettanto truccate, Lukashenko si era visto infliggere una sfilza di sanzioni intelligenti (cioè attente a non colpire la popolazione): divieto di ingresso nei paesi dell'Unione, congelamento dei suoi beni finanziari all’estero, sostegno all’opposizione. Quelle misure devono essere state efficaci: nel 2008, infatti, Lukashenko ha iniziato un timido cambio di rotta, liberando tutti i prigionieri politici. In cambio l’Ue ha sospeso le sanzioni, ha offerto al paese aiuti economici e ha avviato una procedura per scongelare i beni del presidente bielorusso. Se però oggi il regime dovesse dimostrare che ha intenzione di tornare sui suoi passi e scegliere la via dell'autoritarismo, le sanzioni torneranno in vigore. Gli eurodeputati sono concordi nel ritenere che il presidente bielorusso si sia fatto beffe dell’Ue e che occorra tornare alla politica della fermezza.

Uno stato orwelliano

A Tunisi la situazione è peggiore, ma l’Ue resta muta. Come era già successo nel 2009, quando Ben Ali ha “vinto” le elezioni con l’89,62 per cento dei voti. Chi ha visitato la Tunisia e ha parlato con persone vicine all’opposizione sa bene che l’immagine turistica e idilliaca che la Tunisia vuole trasmettere nasconde in realtà uno stato orwelliano, che controlla anche i minimi movimenti della popolazione, compresi i messaggi di posta elettronica. I tumulti tunisini, che hanno provocato un numero di vittime difficile da stabilire con precisione, hanno svelato il vero volto dei regimi che governano l'intera regione e che, in nome di un presunta esigenza di stabilità politica, ricorrono alla repressione più brutale per salvaguardare un sistema corrotto fino al midollo e non certo - come invece sostengono - per costruire una società moderna che servirebbe da baluardo all’islamismo.

Dopo 23 anni al potere, il cleptomane Ben Ali ha avuto l’idea geniale di istituire una commissione d’inchiesta sulla corruzione. Il suo cinismo è senza limiti. Le rivelazioni di WikiLeaks hanno evidenziato con precisione fino a che punto le élite della regione (che si tratti di monarchi o presidenti) vivono una vita dissoluta e corrotta, mentre i giovani non vedono all’orizzonte alcun futuro professionale o personale.

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Le colpe dell'Europa

Considerato quello che sta succedendo in Tunisia, oggi la Spagna, la Francia e l’Italia, i paesi che di fatto gestiscono la politica dell’Ue per il Mediterraneo, oggi hanno il fiato corto e non stanno certo facendo una bella figura. Al contrario la Polonia, la Svezia e i paesi baltici stanno varando, nella loro zona d'influenza, iniziative completamente diverse da quelle di Madrid, Parigi e Roma nel Mediterraneo.

In questa regione, la politica europea somiglia sempre di più a quella degli Stati Uniti in America centrale ai tempi della Guerra Fredda, con le funeste conseguenze che tutti conosciamo. E proprio come la strategia del contenimento adottata da Washington gettò i popoli dell’America centrale nelle braccia della sinistra rivoluzionaria, così le nostre manovre di contenimento dell’islamismo in Nordafrica probabilmente andranno a tutto vantaggio degli islamisti, i quali non hanno nessuna difficoltà a inserire la giustizia sociale e la lotta alla corruzione nei loro programmi politici.

Con la sua passività, l’Europa – non contenta di perdere autorevolezza – isola e condanna all’estinzione tutti coloro (e indubbiamente ve ne sono ancora molti) che nella regione credono ancora in uno stato di diritto, nell’alternanza politica, nel rispetto dei diritti umani. Se segretamente aspiriamo a ritrovarci sulle sponde meridionali del Mediterraneo una serie di repubbliche delle banane, custodi fedeli dei nostri interessi, sembra proprio che abbiamo intrapreso la strada giusta.

Visto dall'Europa

Perché sosteniamo Ben Ali e la sua politica

Le dichiarazioni del presidente Zine Abidine Ben Ali, che ha annunciato di volersi ritirare dal potere nel 2014 e di voler porre fine alla repressione armata da parte della polizia, non hanno portato la pace sociale, non riuscendo a salvare quel caso di successo economico che è stata un tempo la Tunisia. L’economia di questo paese dipende in tutto e per tutto dalle commesse dei subappaltatori industriali europei, dal turismo a buon mercato, dalla partnership con l’Ue. La zona costiera è sviluppata, ma nell’interno il paese è ancora arretrato: nei centri rurali la disoccupazione è sempre più elevata, e sempre più persone emigrano verso le grandi città sulla costa. Una destabilizzazione della regione potrebbe innescare gravi tensioni nella diaspora e un’ondata d’immigrazione di massa dal Maghreb verso l’Europa. È questo forse a spiegare l’indulgenza da parte della Francia – e dell’Europa intera – nei confronti di Ben Ali e del suo corrotto stato di polizia. Il presidente tunisino appare loro come un baluardo contro il pericolo islamista. Rudolph Chimelli, Süddeutsche Zeitung, Monaco (estratti)

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