Trent’anni fa, l’8 dicembre 1991, nel villaggio di Viskuli quasi al confine tra Bielorussia e Polonia, i presidenti delle Repubbliche Sovietiche di Russia, Ucraina e Bielorussia firmarono il cosiddetto Accordo di Belaveža, che formalizzò la fine dell’esistenza dell'Urss.
A distanza di tre decenni, proprio in questi luoghi, nella regione di Brest, nella foresta di Belaveža, al confine bielorusso-polacco è scoppiato un conflitto che non ha precedenti in questa regione e, probabilmente, in tutto il blocco dei paesi europei post-socialisti.
Il dittatore bielorusso Aleksandr Lukašenko, con l’evidente assistenza tecnica e militare, nonché il sostegno politico, della Russia ha usato i migranti – attirati e condotti in Bielorussia dall’Afghanistan, dalla Siria e da altri paesi orientali – per creare un “conflitto ibrido” ai confini dell'Unione europea. L’asprezza del clima invernale, la violenza delle forze di sicurezza bielorusse, che usano i migranti come ostaggi e diventata palese nelle operazioni di repressione delle proteste di massa cominciate nel 2020, e la dura posizione del governo polacco che ha sprangato il confine, è più che probabile che le perdite di vite umane saranno enormi.
Penso che questo conflitto, ambientato nelle gelide foreste di un territorio di confine, si possa anche leggere così: la dissoluzione dell’Unione Sovietica è tutt’altro che conclusa.
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