Analisi Guerra in Ucraina

Fino a quando gli sfollati ucraini saranno accolti a braccia aperte in Polonia?

Nove mesi dopo l’inizio dell’invasione russa, gli ucraini continuano ad arrivare a Varsavia. La popolazione polacca manifesta ancora un forte sostegno ai rifugiati ucraini, ma il numero di volontari che li aiuta è drasticamente calato. La sociologa Daria Krivonos analizza la loro posizione nella società polacca e, più in generale, del lavoro delle comunità ucraine in questo momento di tensione, spesso completamente invisibilizzato.

Pubblicato il 24 Novembre 2022 alle 09:51

Ciò di cui spesso non si parla quando si racconta la solidarietà nei confronti degli sfollati (1) provenienti dall’Ucraina a seguito  dell’invasione della Russia è che la stragrande maggioranza dei volontari è formata da ucraini, molti dei quali fuggiti loro stessi dalla guerra. 

Ora che il dibattito sull’arrivo dei rifugiati ucraini è incentrato sulla tempestiva mobilitazione nelle comunità locali delle “società ospitanti”, è importante chiedersi chi sia riconosciuto come parte a tutti gli effetti di queste “comunità locali”. 

Se è giusto e importante riconoscere il valore del sostegno  e la reazione della maggioranza della società polacca, mi piacerebbe aprire il dibattito su  chi sosterrà i costi necessari per l’integrazione dei rifugiati ucraini in una prospettiva a lungo termine, una volta che le “società ospitanti” saranno affaticate dalla guerra e i sentimenti umanitari cominceranno a evaporare. 

Già ora notiamo che le “comunità locali” sono meno disposte a ospitare gli sfollati, e i governi (quello polacco, per esempio) ritirano gli aiuti a coloro che accolgono i rifugiati nelle loro case. Dato che fin dall’inizio questa solidarietà ha fatto affidamento in buona parte sulla costruzione vacillante dell’europeismo e dell’”essere bianchi”, ci si potrebbe chiedere  quanto opportunamente formulato da uno dei ricercatori ucraini miei  interlocutori: “Fino a quando durerà questa solidarietà? Quando cominceranno a trattare noi ucraini come i rifugiati siriani?”.

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Ora che le tutele provvisorie non consentono più ai rifugiati di accedere a garanzie estese e a diritti di welfare, e che a ciò si aggiunge l’affaticamento delle “società ospitanti”, dovremmo chiederci chi si occuperà di ricreare per gli ucraini in fuga dalla guerra le condizioni per inserirsi nella società, alla luce del fatto che la guerra probabilmente durerà.

Rispondere a queste domande richiederebbe di riconoscere oltre un milione di cittadini ucraini che vivevano già in Polonia allo scoppio della guerra e che adesso devono sostenere le spese necessarie a ricreare le condizioni per l’inserimento dei rifugiati nella società, ospitando i loro famigliari, parenti e amici in piccoli appartamenti sempre più cari per l’impennata del costo della vita.

Come molti altri, Andrii – neolaureato di un’università polacca e magazziniere in un supermercato – mi ha raccontato cosa significhi ospitare per un periodo indefinito sua nonna e suo fratello minore in un monolocale. 

I migranti ucraini in Europa 

Continuando a confrontarsi sull’accoglienza ai rifugiati ucraini in Europa, è indispensabile astenersi dal considerare i bianchi europei “dalla parte dell’Ucraina” – anzi, con tutte le sue risorse distribuite in modo disuguale per la solidarietà razzializzata – e tenere presente che il lavoro dei migranti ucraini ha sostenuto le economie dell’Ue per molto tempo. Il lavoro svolto da soggetti evidentemente bianchi, in buona parte invisibili, è stato necessario per le economie dell’Ue.

Se perlopiù sono trascurati dai ricercatori che si occupano di migrazioni a livello internazionale, i cittadini ucraini sono stati tra coloro che hanno ricevuto il più alto numero di quei permessi di lavoro collegati alla residenza che fanno funzionare le economie dell’Ue e, dal 2014, proprio la Polonia è al primo posto tra i paesi in cui si sono diretti i lavoratori migranti nell’Ue. Ogni anno sono stati rilasciati a cittadini ucraini più di 500mila permessi di soggiorno, quasi esclusivamente dalla confinante Polonia.

La dipendenza dell’Europa dalla manodopera migrante è diventata ufficialmente visibile con gli sconvolgimenti dovuti alla pandemia, quando questi lavoratori non sono più stati in grado a raggiungere il loro posto di lavoro, per venire poi dimenticati nuovamente quando l’emergenza è finita. Il peso dell’assistenza in contesti di sfollamento ricade anch’esso sulle comunità di migranti ucraini e su persone come Andrii, troppo spesso occupati in un’economia precaria a bassa retribuzione.

Quando esaminiamo il rapporto tra la mobilità della manodopera a lungo termine dei migranti ucraini e l’attuale sfollamento nell’ambito dell’invasione russa, emerge subito come le persone che aiutano e quelle che scappano spesso sono quegli stessi individui che condividono e capiscono le difficoltà delle comunità di sfollati.

L’invisibilità della manodopera migrante ucraina continua a essere riprodotta nell’attuale spettacolo dell’accoglienza nell’Ue. Benché messi spesso in secondo piano dal tono autocelebrativo dell’Ue che “sta dalla parte dell’Ucraina”, e dediti a lavorare per sostenere sul lungo periodo le vite degli altri connazionali rifugiati, molti ucraini hanno lavorato notte e giorno nelle principali stazioni di Varsavia offrendo informazioni, caricando bagagli, cercando itinerari di viaggio per altri paesi, aiutando con la modulistica, i biglietti ferroviari e degli autobus, traducendo e compilando richieste di visto.

Essere ucraini e migranti, prima della guerra

Alcuni di loro erano studenti lavoratori ucraini che vivevano in Polonia ancora prima dell’invasione del loro Paese e i cui contratti di affitto e i cui permessi di studio stavano per scadere. Anna, una di loro, ha preso in considerazione l’idea di tornare in Ucraina per l’estate, dato che trovare e pagare una sistemazione a Varsavia è diventato ancora più difficile.

Rispondere alle inserzioni di alloggi “soltanto per polacchi” non era facile nemmeno prima della guerra per coloro che avevano inflessione, nome e cognome ucraini. A differenza di altri connazionali che hanno varcato la frontiera dell’Ue dopo il 24 febbraio, gli ucraini come Anna non hanno diritto a una tutela temporanea e ad altri benefit (come, tra gli altri, la gratuità dei mezzi di trasporto e dei treni). 


“Fino a quando durerà questa solidarietà? Quando cominceranno a trattare noi ucraini come i rifugiati siriani?”


Prima che fossero revocati i benefit, alle biglietterie e all’ingresso delle mense dove si distribuiscono pasti gratuiti si controllava sul passaporto ucraino il timbro apposto per documentare l’attraversamento del confine dopo lo scoppio della guerra, facendo sì che la coda si dividesse in due: quella degli ucraini che meritavano maggior supporto e quella degli ucraini che si pensava si fossero già stabiliti.

In autunno, il padrone di casa di Anna le ha aumentato l’affitto del 20 per cento, motivandolo con l’inflazione in Polonia, e per i suoi genitori che vivono in Ucraina questo ha comportato maggiori pressioni finanziarie. Mentre scrivo, nel novembre 2022, Anna continua a offrire aiuto gratis ai suoi connazionali ucraini e compila le loro richieste di visto per l’America settentrionale.

È anche volontaria in una delle molte Ong che fanno affidamento proprio sui rifugiati ucraini che hanno un alto grado di istruzione, parlano inglese, russo, ucraino e polacco, e lavorano gratis.

Vicende come questa non sono nuove, né sono confinate al solo ambito ucraino. Le ricerche evidenziano come la fatica di ricrearsi una vita in un clima tragico ricada su lavoratori razzializzati, precari, confinati a mansioni molto faticose e di basso livello, emotivamente logoranti e pesanti a livello fisico. Il lavoro volontario svolto dai rifugiati è stato reso invisibile, fino a farlo passare per non-lavoro.  

I teorici della riproduzione sociale femminista hanno sostenuto a lungo che la fatica invisibile di sostenere la vita quotidiana è stata esternalizzata a comunità razzializzate della classe dei lavoratori. Questa versione mette in discussione il concetto di lavoro come sinonimo di salario e occupazione, spostando di fatto l’attenzione verso forme di lavoro non retribuite e non riconosciute. Come in altri casi in cui il lavoro dei volontari è riformulato come non-lavoro, la storia di queste forme di lavoro riproduttivo è una storia di disinteresse e mancato riconoscimento. 

Il lavoro dei volontari di recente è stato teorizzato e problematizzato come “non-lavoro”, come gesti di amore e di servizio, opportunità formative ed esperienziali. Direi anche che queste forme di non-lavoro hanno un riconoscimento differenziale e un valore di scambio che dipende da chi fisicamente svolge questo “non-lavoro”. Volontariato e solidarietà suscitano diverso riconoscimento pubblico e valore a seconda dei meccanismi socioculturali connessi a razza, genere, nazionalità e cittadinanza.

Alcuni volontari che operano nella stazione di Varsavia, arrivati proprio dall’America settentrionale, hanno parlato del volontariato come di un aiuto motivato dall’incapacità di restare immobili di fronte al disastro; molti, però, avevano anche il tempo e le risorse economiche necessarie a poter trascorrere varie settimane alla stazione, tenuto conto che per loro il costo della vita a Varsavia è molto più abbordabile.

Alcuni lavoravano per Ong occidentali che possono operare soltanto grazie all’aiuto degli interpreti ucraini, il cui lavoro perlopiù non è retribuito. Alcuni volontari in arrivo dall’estero erano universitari che studiano le lingue dell’Europa dell’est, russo e ucraino, e che stavano facendo esperienza e pratica linguistica per il futuro.


Il lavoro della popolazione ucraina – pagato e non pagato – rischia di essere dimenticato nelle versioni autocelebrative dell’Europa, che dipingono gli ucraini solo come destinatari di aiuti


Nel frattempo, una delle giovani volontarie ucraine alla stazione ha sostenuto che è un peccato che non otterrà un certificato e nemmeno una documentazione che comprovi che ha fatto la volontaria lì. Lo ha detto mentre preparava il suo Cv per rispondere ad alcune inserzioni di lavoro. Oltre alla fatica emotiva e all’abilità nella ricerca di informazioni, questa attività implica competenze linguistiche, troppo spesso tacciate come naturali per il solo fatto che si “è originari dell’Ucraina”.

L’esperienza degli ucraini del volontariato, considerato “non-lavoro”, ha scarso valore di scambio ed è ritenuto disponibile naturalmente solo in virtù del fatto che si “è originari dell’Ucraina” e si hanno ovvie competenze linguistiche. Questo lavoro è reso invisibile dal fatto di essere svolto dagli stessi rifugiati ucraini.

Mentre mi trovavo al banco informazioni e chiacchieravo, sono stata interrotta da persone che facevano domande sugli alloggi, i visti e i trasporti, e ho trascorso molte ore parlando con giovani volontari ucraini delle strategie necessarie a trovare un lavoro retribuito che consenta loro di guadagnarsi da vivere nell’Ue.

Molti non hanno preso in considerazione un soggiorno a lungo termine in Polonia a causa delle demoralizzanti opportunità offerte dal mercato a persone arrivate di recente, mentre migrare in altri Paesi è stato considerato spesso un’opzione solo da coloro che hanno parenti e conoscenti che vivono già in quei posti.

A differenza di altri volontari, molte di queste persone – perlopiù giovani e donne – non avevano dove ritornare, e il loro lavoro non è celebrato come una risposta da parte della “comunità locale”, né ha un valore di scambio qualsiasi nel caso di altri volontari non ucraini.

Alcuni rifugiati volontari sono entrati nei mercati del lavoro precario nel settore dei servizi lavorando nei bar e nei negozi di souvenir, e questo dimostra ancora una volta il collegamento tra lavoro a retribuzione precaria dei migranti e volontariato inteso come non-lavoro nelle stazioni ferroviarie o nelle Ong occidentali. 

Il lavoro della popolazione ucraina – sia pagato sia non pagato – rischia di essere dimenticato ancora una volta nelle versioni autocelebrative dell’Europa, che dipingono gli ucraini soltanto come destinatari di aiuto, come accaduto in altri contesti di sfollamento.


1) Anche se qui uso la parola “rifugiati”, è importante ricordare che a queste persone non è concesso lo status di rifugiato in base alla Convenzione di Ginevra del 1951.

👉 Articolo originale su LeftEast

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